mercoledì 17 giugno 2009

4. Concorrenza ed emancipazione


4.1 Illusione e dèbacle di una “abolizione” della concorrenza nella società del lavoro

Dopo tanti decenni lo schema interpretativo che fa leva sulle categorie dello Stato e dell’economia di guerra si è impresso come un marchio di fuoco sulla pelle del marxismo. La critica fondamentale di Marx al sistema produttore di merce è stata rimossa e dimenticata. Di conseguenza, nel dibattito circa il crollo del socialismo reale, il fondamento comune ad entrambi i sistemi, ovvero la società del lavoro, resta nell’ombra esattamente come la determinazione delle sue forme di base; il sistema calcificato dell’economia di guerra con tutte le sue tare viene giudicato con il metro della sua controparte occidentale, di gran lunga più sviluppata, e non alla luce di una critica della riproduzione in forma–merce come tale.
In particolare la sinistra – che è incappata nella sua Waterloo e il cui universo concettuale, anche quello dei suoi esponenti più radicali, è pur sempre figlio della visione del mondo elaborata dalla vecchia socialdemocrazia – si segnala a questo riguardo per colossali fraintendimenti. L’assurdità logica, da sempre celata dietro allo pseudo–concetto di “mercato pianificato”, viene adesso alla luce ma per l’ennesima volta nella forma distorta e irrealistica di un’ideologia che è già sul punto di precipitare in caduta libera. Si stenta a credere alle proprie orecchie quando, per esempio, certi economisti della RDT – strappati improvvisamente alle loro cantilene infantili circa la cosiddetta "economia politica del socialismo" – affermano senza esitazione alcuna che ad essere naufragata da loro era soltanto un’“economia naturale” (!) o un falso “comunismo immediato” (Land et al. 1990). L’economia di comando e da caserma – che è comunque fondata sulla forma–merce – viene sistematicamente confusa con una forma di riproduzione sociale non basata sulla merce, sebbene tutte le categorie di base del sistema produttore di merce abbiano continuato a sussistere; invece di analizzare criticamente l’esistenza di tali categorie, esse vengono ripudiate come inautentiche e poi furtivamente occultate, per poter essere poi risalutate di nuovo in una forma presuntivamente differente (occidentale).
Ma quando si parla di categorie di mercato “inautentiche” che quindi dovrebbero solo essere rese “autentiche” e affermate correttamente, viene alla luce un fraintendimento ideologico, sia della coscienza che della storia reale borghese, dell’oscillazione tra statalismo e monetarismo. Poiché, almeno in apparenza, sembra essere venuto il momento del monetarismo, l’elemento statalista, ad esso complementare, viene rigettato come “scorretto”, dannoso e di ostacolo al “vero” mercato; si tratta di un’affermazione che risulta particolarmente esilarante sulla bocca di individui che fino a poco tempo prima farfugliavano alla stregua di ferrei marxisti. Naturalmente l’elemento statalista è abbondantemente presente anche in Occidente e i turisti accademici dell’economia di mercato provenienti dalla Polonia e dalla RDT, avrebbero già strabuzzato gli occhi dopo avere esaminato più da vicino, per esempio, il settore agricolo della Comunità Europea.
Lo statalismo, in quanto parte integrante del sistema produttore di merce, lungi dal rappresentare uno sviluppo degenere, esteriore ed estraneo, accomuna tanto il socialismo reale ormai in frantumi, quanto l’Occidente all’interno di un continuum della modernità. Questa continuità si estende dall’assolutismo illuminato occidentale fino all’odierno “Stato della crescita”, passando attraverso il socialismo reale con la sua economia di guerra, e il loro obiettivo sempre identico consiste semplicemente nell’imporre la sottomissione dei bisogni, delle finalità e degli scopi umani nei confronti dell’astratta ricchezza nazionale di un sistema produttore di merce e della sua crescita e nell’addestramento sistematico degli uomini a questo “scopo in sé“ insensato.
La differenza tra i due sistemi, tanto invocata, non va ricercata nello statalismo in quanto tale e neppure nella sua temporanea prevalenza, che persino l’Occidente sperimentò ripetutamente, ma soltanto nel congelamento dell’alternanza dell’elemento statalista con l’elemento monetarista, già presente secondo la sua base e forma. Tale elemento non coincide assolutamente con la mera esistenza del denaro ma nella sua esistenza in seno a un sistema produttore di merce ossia nello specifico contesto della modernità. Qui il denaro è legato al meccanismo funzionale della concorrenza, ed è soprattutto in questa che si esprime quello che ho designato come l’elemento monetarista.
Curiosamente gli ideologi e gli apologeti del socialismo reale si mostravano orgogliosi di avere smantellato questo meccanismo funzionale. Nell’ideologia marxista del vecchio movimento operaio, la concorrenza figurava come pura negatività, sia dal punto di vista morale come principio socialdarwinista e distruttivo della “lotta di tutti contro tutti”, sia da quello economico, incarnato in quella famigerata “anarchia del mercato” che doveva essere soppiantata dalla “pianificazione” razionale. Tuttavia questa critica economica della concorrenza, sulla scorta però di principi morali, sfiorò solo esteriormente la base del sistema produttore di merce ma soprattutto eluse sistematicamente la questione dell’emancipazione sociale di quella “classe operaia” che, secondo la lezione di Marx, avrebbe dovuto agire nel senso della propria autosoppressione; il movimento operaio marxista reale, al contrario, si spinse fino alla conseguente autoaffermazione del “lavoratore”.
Ma a questo punto emerge un paradosso fino ad oggi irrisolto al centro della teoria marxiana. L’affermazione che Marx fa del movimento operaio come movimento dei “lavoratori” e come “punto di vista del lavoratore” e della “classe” ecc. e che attraversa tutta la sua opera, risulta di fatto inconciliabile con la sua critica effettiva dell’economia politica che smaschera proprio questa classe operaia come categoria sociale, non ontologica ma costituita dal capitale stesso. Se l’ontologia del lavoro e la critica del lavoro astratto si escludono reciprocamente, allora lo stesso vale per il “punto di vista del lavoratore” e la critica dell’esistenza in quanto lavoratore.
In realtà Marx si trovò di fronte due logiche storiche differenti che si compenetravano vicendevolmente e che egli non riuscì a distinguere nitidamente: da una parte c’era il processo di presa di coscienza della merce forza–lavoro nel quadro del sistema produttore di merce che, grazie all’azione del movimento operaio, condusse all’emancipazione capitalista dei salariati da tutti i residui feudali e patriarcali cioè alla loro esistenza odierna come monadi democratiche del denaro e della cittadinanza, dall’altro l’automovimento tautologico e privo di soggetto del denaro con il suo limite immanente.
Dal punto di vista della logica intrinseca dello sviluppo storico del sistema produttore di merce, la “classe operaia” non poteva neppure essere concepita nella prospettiva della sua abolizione effettiva. Il concetto di emancipazione sociale restava imprigionato all’interno del sistema del lavoro astratto e poteva essere compreso solo nelle sue categorie – e questo è ancora oggi ben visibile nella retorica morale della giustizia sociale che caratterizza un gergo sindacale ormai esangue. L’elemento razionale di questa costellazione, che oggi ha esaurito il suo ruolo storico, fu soltanto l’emancipazione delle masse per il lavoro salariato e non certo da esso.
Ma proprio per questo motivo una prospettiva di questo genere non poteva assolutamente valere come critica concreta del sistema produttore di merce e non poteva che sfociare riduttivamente in una tendenza verso la ciarlataneria moraleggiante. La critica, non logica, bensì meramente empirica dell’esistenza in quanto lavoratore implicava una critica altrettanto immanente della concorrenza, che però restava circoscritta ai fenomeni empirici negativi; ma mancando qualsiasi nesso logico tra i due elementi della critica, che non si potevano mediare concretamente sul piano teorici e pratico, essi dovevano per forza appoggiarsi sempre alla stampella moralistica.
Ma sulla base di queste premesse la critica della concorrenza doveva andare incontro a un’ambiguità fatale, dal momento che la soppressione della concorrenza medesima non ebbe affatto come esito l’emancipazione sociale. I lavoratori restarono pur sempre lavoratori, anche sotto il diktat dell’economia di mercato militaresca dell’Est e persino ancor più che nell’economia concorrenziale dell’Ovest. Questo fatto non era certo sfuggito all’attenzione di quegli osservatori critici – si pensi in particolare a Adorno, Horkheimer e alla Scuola di Francoforte – che non figuravano certo nel novero degli ideologi della Guerra Fredda né degli apologeti di sinistra. Tuttavia essi credevano che la logica di base negativa della società del lavoro con lo statalismo del socialismo reale e con i fenomeni statalisti affini, presenti anche in Occidente nell’epoca delle due guerre, si fosse chiusa ermeticamente in quanto “falso” principio di razionalità, nella forma del “totalitarismo” e che attraverso il comando statale avesse avuto buon esito il “falso” superamento della contraddizione capitalista; in questo modo il meccanismo funzionale del lavoro astratto si sarebbe davvero installato per l’eternità come un sistema in grado di funzionare senza attriti e di autoregolare la sua proceduralità:



(...)




Dal riferimento al passato mercantilista e giacobino del comando statale sul mercato Horkheimer avrebbe potuto dedurre l’impossibilità dell’eliminazione della concorrenza (l’elemento e il motivo monetarista che si contrappone a quello statalista) dalla riproduzione capitalistica, in quanto essa non soccombe mai realmente. Ma su questo punto Horkheimer rimane fedele alla concezione tradizionale del marxismo del movimento operaio e all’empirismo della sua epoca (solo in una versione negativa). Egli interpreta la storia della modernità non come il processo contraddittorio del capitale le cui contraddizioni si acuiscono nel corso della storia e si rivelano irresolubili sulla base dei propri fondamenti, ma come l’ascesa, logica, unilaterale e irresistibile dell’elemento statalista fino a diventare una “totalità” in cui “la circolazione viene abolita”.
Questa illusione ricorda in tutto e per tutto non solo la concezione positiva della possibilità di un “mercato pianificato”, ma anche la sua odierna versione negativa, in cui l’apparente assenza di concorrenza nel “mercato pianificato” viene assimilata in un batter d’occhio a una pura economia statalista di distribuzione (economia naturale, comunismo immediato), sprovvista di circolazione. Non è altro che l’ennesima manifestazione di quella strabiliante cecità teorica che confonde l’esistenza impropria delle categorie di mercato con la loro insussistenza. Ma il tentativo di pianificare la circolazione non coincide affatto con la sua soppressione.
L’autentica abolizione della circolazione dovrebbe coincidere logicamente con l’abolizione del denaro e dell’istituzione del mercato in genere. Ma se questo si verificasse davvero allora, altrettanto logicamente, verrebbe a cadere anche la necessità o persino la possibilità dello Stato poiché quest’ultimo, nel processo della modernità, non è altro che l’elemento contraddittorio immanente del sistema produttore di merce. Coloro che ritengono possibile l’abolizione della circolazione solo in una forma statalista e non riescono a uscire da questo circolo logico vizioso, finiscono con l’essere smentiti dai fatti in quanto proprio grazie allo Stato moderno, abbiamo avuto l’affermazione e lo scatenamento del denaro e della circolazione (e di conseguenza del mercato).
Lo Stato moderno è il contenitore istituzionale della ricchezza nazionale astratta per il cui accumulo insensato esso deve concentrare i bisogni e le aspirazioni degli uomini in una volontà complessiva a loro estranea. Il denaro non è altro che l’incarnazione della ricchezza astratta che si moltiplica come lavoro morto ed esso non può esistere se non nell’ambito del mercato e della circolazione. Se lo Stato intendesse davvero abolire il denaro e la circolazione finirebbe col sopprimere la sua stessa ragion d’essere.

4.2 Divisione del lavoro e produzione di merce nella storia
Tanto il mercato quanto il denaro e la sua circolazione sono sorti nel corso della storia come correlazione sociale esterna per lo scambio dei prodotti di singoli produttori isolati e irrelati nella loro produzione immediata; di conseguenza storicamente il mercato e il denaro non sono che l’espressione di una divisione del lavoro relativamente poco sviluppata, con un modesto grado di interconnessione. E’ proprio l’esatto contrario di quanto comunemente venga supposto e la ragione di ciò sta nel fatto che vengono utilizzate come pietra di paragone solo società primitive che si riproducono quasi completamente senza divisione del lavoro.
All’opposto sarebbe il caso di chiamare in causa la divisione del lavoro nella moderna società industriale, per riconoscere le contraddizioni logiche del moderno sistema produttore di merce, paragonandola con la costituzione storica originaria delle categorie di mercato e denaro. Non è assolutamente detto che un sistema con una divisione del lavoro altamente sviluppata debba avere come conseguenza “naturale” una corrispondente espansione e generalizzazione delle categorie di merce e denaro. Una concezione di questo genere presuppone un’identità immediata tra divisione del lavoro sociale e forma–merce che in realtà non è per nulla scontata. Presso i popoli primitivi non esistono le categorie della merce poiché la loro divisione del lavoro è ancora troppo poco sviluppata mentre le stesse categorie compaiono nelle società civilizzate solo perché il sistema di divisione del lavoro aveva inizialmente assunto forme di base relativamente rudimentali.
Certo è possibile parlare di socializzazione già a partire da questo stadio; si tratta comunque di forme di socializzazione embrionali e esteriori, costituite solo a posteriori attraverso lo “scambio” e cui si sovrapponevano i rapporti di dipendenza e di appropriazione “naturali” (sistema schiavistico, feudale ecc.). Le produzioni reali sono sì parzialmente dipendenti tra loro ma non si ingranano reciprocamente e non sono mediate per mezzo degli aggregati logistici sociali complessivi. Ma non appena la divisione del lavoro nel processo della modernità supera definitivamente le sue strutture primitive, le produzioni industriali si integrano direttamente tra loro su scala crescente e si sviluppano fino a divenire un sistema totale e immediato, alimentato dagli aggregati sociali (scienza, sistema educativo ecc.), non appena cioè sorge un’organizzazione integrata e universale, il sistema di divisione del lavoro “sostanziale”, “tecnico”, “materiale” cessa di corrispondere alle categorie originarie di mercato e di denaro, poiché nel suo sviluppo ha finito col travolgerle. Ora la divisione del lavoro ha unito le produzioni reali (e in questo consiste il processo della modernità sul piano “materiale”) in un sistema di socializzazione diretta, mentre mercato e denaro sono certo espressione di una socializzazione indiretta e solo a posteriori, delle produzioni reali sulla base di un sistema di divisione del lavoro grossolano e sottosviluppato tra produttori singoli e isolati. Ne è conseguenza logica il fatto che l’esistenza continuata del mercato e del denaro, ben lungi dall’essere espressione delle nuove e più alte forme della divisione del lavoro materiale e sostanziale ,si pone in un contrasto insanabile con queste ultime.
La socializzazione sempre più immediata delle produzioni reali si accompagna proprio all’universalizzazione delle categorie formali di una socializzazione indiretta e a posteriori ossia della merce e del denaro. In questo consiste l’assurda contraddizione fondamentale della modernità. La riproduzione sociale si rivolta contro il suo contenuto, il denaro divenuto scopo a se stesso contro il mondo concreto e sensibile. Solo su questo terreno la concorrenza può agire come necessità logica e principio dinamico del sistema produttore di merce. I prodotti non rappresentano più, nel loro contesto sociale, ciò che veramente sono, sul piano materiale e sensibile; la loro produzione è soltanto produzione di plusvalore. Ovviamente lo scambio sul mercato appare pur sempre come acquisto e vendita di beni concreti necessari ma sul piano della mediazione sociale, si tratta soltanto della realizzazione del plusvalore incarnato nei beni, della sua trasformazione nella forma di rappresentazione che gli è propria ossia in denaro. I beni d’uso vengono degradati a mero stadio di transizione nel processo di metamorfosi formale del valore economico astratto. La concorrenza è solo la forma in cui questo automovimento del denaro si impone sul soggetto come “legge coercitiva” esterna (Marx), causando un’accelerazione della dinamica sociale il cui carattere contraddittorio va spiegato a partire dalla relazione di produzione e circolazione nel contesto di un sistema produttore di merce.

4.3 La concorrenza come processo storico propulsivo

Il denaro rappresenta l’astrazione reale sociale, l’incarnazione per eccellenza del lavoro astratto, completamente avulso dal contenuto concreto della produzione. Come astrazione reale totale, il denaro è la cosa immediatamente sociale, così come lo diventa d’altra parte la produzione concreta, scientificizzata e interconnessa, mentre gli uomini restano non sociali, come monadi del denaro che si muovono alla superficie della loro organizzazione sociale, la quale si contrappone loro in modo esteriore, estraniato e in forme oggettivate. La socialità del denaro che, nella sua massa complessiva, rappresenta la ricchezza nazionale astratta, implica tuttavia la sua universale “fluidità” in opposizione alla pesantezza dell’universo dei beni reali.
Poiché ora lo scopo finale dell’intera organizzazione non è più la mediazione dei beni concreti ma la trasformazione del denaro in (più) denaro, si verifica una particolare scissione e un’incongruenza tra la produzione di plusvalore e la sua realizzazione nella sfera della circolazione. Come massa monetaria la ricchezza astratta, nel suo ultimo avatar, è già immediatamente sociale e quindi lo è anche il plusvalore. Nella sua forma di rappresentazione solo transitoria, quella dei prodotti concreti, essa al contrario è ancora particolare, non sociale, “incompiuta”.
La concorrenza, come conflitto tra le particolari unità aziendali per la realizzazione del plusvalore, si origina proprio da questa tensione tra i diversi stati di aggregazione del plusvalore. Il calzolaio, al riparo della sua corporazione, con i suoi metodi di produzione immutabili e i suoi prezzi rigidamente fissati poteva fare affidamento sul fatto che la stessa fissazione valesse anche per i fornai, i macellai ecc.; egli poteva contare quindi su di una mediazione dei beni d’uso, senza attriti ma stabile e durevole, conforme all’epoca. Ma oggi il sistema della merce moderna non è più in grado di concedere tali garanzie e fissazioni.
Infatti la singola unità aziendale non viene affatto ricompensata con la stessa massa di plusvalore che ha incorporato nella sua produzione specifica di beni, ovvero come numero di ore e di minuti di lavoro astratto impiegato. Generi come scarpe, pane e carne non vengono più sottoposti alla mediazione del mercato in proporzioni determinate, al contrario i beni d’uso prodotti vengono abbandonati in balìa dei sussulti del processo di automovimento del denaro. In altre parole la singola unità aziendale non può “scambiare” il “suo” plusvalore nella forma di beni d’uso contro una corrispondente quantità di denaro, come un calzolaio potrebbe barattare le sue scarpe con del pane e della carne. Invece essa deve “appropriarsi” nella circolazione di una quota del plusvalore sociale complessivo, nella sua forma monetaria (proveniente da processi di utilizzazione astratti e ormai trascorsi di lavoro vivo), mediante la vendita dei suoi prodotti su di un mercato che, a causa del suo mutamento di finalità, non può più risultare fisso e garantito.
La produzione e l’appropriazione del plusvalore entrano in collisione sia sul piano logico che su quello pratico: nel dualismo tra particolarità del prodotto e universalità del denaro, come incongruenza tra valore d’uso materiale e forma monetaria astratta del plusvalore. Ma proprio questa incongruenza si trasforma in una forza trainante per l’intero processo della modernità, nella sorgente di una sbalorditiva dinamica sociale. Il plusvalore reale non è la semplice sommatoria delle eccedenze particolari nell’utilizzo del lavoro vivo, non è una grandezza determinata e stabile bensì una grandezza mutevole, pulsante, in continua oscillazione, la forma fenomenica di un incessante processo sociale. La singola unità aziendale può appropriarsi solo di una porzione più o meno grande della forma definitiva del plusvalore – quella monetaria –, incorporata nei suoi prodotti. Da questo si decide immediatamente il suo successo o insuccesso relativo sul mercato ossia nella sfera della circolazione.
In linea di principio, come è noto, gode del maggior successo relativo l’unità aziendale che si dimostra in grado di “offrire al prezzo più conveniente” (a prescindere da disturbi di natura extraeconomica che in ogni caso non possono mai soppiantare del tutto la logica di base). Questa facoltà dipende per parte sua dalla produttività, più o meno alta, dell’impresa stessa. Produttività elevata non significa altro se non la capacità di produrre una grande massa di prodotti con il minimo dispendio di lavoro vivo. La concorrenza per l’appropriazione del plusvalore ovvero la sua trasformazione nella forma–denaro, impone un incremento costante della produttività pena il tramonto di questa o di quella unità produttiva; ma proprio a causa dell’instaurazione di questo meccanismo sociale, venne messa improvvisamente in moto una spinta straordinaria, una violenta esplosione della produttività che in un brevissimo istante storico, durato meno di due secoli, è aumentata più che durante tutta la storia anteriore.
Proprio in questa dinamica sta il “senso” recondito della concorrenza. Nella critica marxiana dell’economia politica tutto questo viene affermato a chiare lettere. Marx non ha nulla a che spartire con quella condanna della concorrenza solo esteriore, in parte moralistica in parte di stampo socio–tecnologico, tipica della concezione del movimento operaio. Per Marx, sul terreno del sistema produttore di merce, la concorrenza è necessaria perché possa avere inizio il processo dell’emancipazione umana dai meri fondamenti naturali, dal lavoro come labor, come sofferenza del “sudore della fronte”, anche se in una forma ancora incosciente e feticistica.
Nelle formazioni sociali precapitalistiche non esisteva nessuna motivazione generale, propulsiva per lo sviluppo delle forze produttive; al contrario i metodi di produzione furono sempre espressamente determinati, con la minaccia di punizioni contro ogni tentativo di cambiamento. L’idea ingenua secondo cui gli uomini avrebbero dovuto progettare, all’interno dei loro rapporti tradizionali, uno sviluppo delle moderne forze produttive in un modo diverso e meno drastico, coscientemente e collettivamente, “eludendo” il capitalismo, presuppone un soggetto che non poteva ancora neppure esistere. Solo la concorrenza come “muta coercizione” (Marx) del sistema produttore di merce, che è nata e opera “dietro le spalle” dei soggetti, poteva mettere in moto a tal punto le forze produttive, anche se in uno stridente contrasto di distruzione e emancipazione.
Se da una parte la concorrenza toglie agli uomini il respiro, dall’altra essa disprezza l’ottusità e la stabilità su un basso livello; essa distrugge massicciamente le esistenze ma, allo stesso tempo, rende obsoleto ogni rapporto di esistenza corporativo e rozzo, ogni rapporto di dipendenza personale; essa separa le masse dalla soddisfazione dei loro bisogni, su scala ogni volta differente, ma sviluppa nuovi bisogni di massa e li “rende sempre più economici (!)” (Marx) trasformando il consumo voluttuario di pochi beni elitari in consumo di massa; essa disumanizza gli uomini e li rende mere maschere di carattere del denaro, ma allo stesso tempo umanizza i soggetti (in precedenza astratti, condizionati, costituiti) distruggendo tutti i feticci naturali e i domini istituzionali sotto cui gli uomini vegetavano come appendici prive di soggettività della proprietà fondiaria.
Ma soprattutto sebbene la concorrenza costringa e sferzi gli uomini nel dispendio astratto della loro forza–lavoro, essa rappresenta allo stesso tempo quel principio dinamico in grado di superare tendenzialmente il lavoro, rendendolo obsoleto attraverso la sua pulsione, forzata e spietata, verso avanzate sempre nuove della produttività e della scientificizzazione; essa trasforma le forze produttive in forze distruttive ma simultaneamente sospinge l’appropriazione umana della natura oltre ogni misura finora conosciuta. Marx non ha mai disconosciuto l’elemento positivo, progressivo, emancipatorio della concorrenza, contrassegnandolo come “missione civilizzatrice”. Osservava quasi meravigliato Josef Schumpeter come Marx a dispetto della sua critica fondamentale, addirittura a dispetto della sua “condanna a morte” del capitale avesse contemporaneamente [...] (Schumpeter 1942)
In realtà la critica marxiana dell’economia politica tiene semplicemente conto dell’ambiguità della dinamica capitalistica. Nonostante la sua forza distruttiva diretta contro l’uomo e la natura, la macchina della concorrenza è allo stesso tempo emancipazione negativa poiché, attraverso un ininterrotto processo di sviluppo delle forze produttive, giunge inevitabilmente fino alla soglia dell’”abolizione del lavoro” cioè del lavoro di produzione astratto, ripetitivo e che si limita a “produrre valore”; ma in questo modo essa sopprime anche i suoi stessi fondamenti interni rendendo se stessa obsoleta. L’interconnessione dei contenuti della riproduzione fino a un sistema totale di socializzazione diretta si pone in opposizione alle categorie della merce ma è proprio il sistema produttore di merce diventato fine a se stesso a creare questa scientificizzazione e questa interconnessione, generando il suo contrario nello sforzo di perseguire il suo scopo limitato e “privo di senso”. La concorrenza lavora in modo inconsapevole e involontario alla distruzione delle sue stese basi.
In altri termini, l’abolizione del lavoro, nell’involucro del sistema produttore di merce, non fa la sua comparsa come evento gioioso e spensierato ma solo in forma negativa e precisamente come crisi assoluta della riproduzione in questa forma, preannunciata da una concatenazione storica di crisi ascendenti e relative della moderna società del lavoro, nel corso della sua fase di affermazione. La società mondiale capitalistica si avvicina così alla sua prova del fuoco e alla deflagrazione, poiché si approssima al punto in cui (agli occhi dei contemporanei apparirà come un processo) essa sopprime il lavoro astratto nella sua funzione di sostanza sociale del valore economico. Ma d’altra parte essa intende rimanere con la forza nell’involucro della forma–valore e delle sue categorie derivate (salario, prezzo e profitto) nonostante essa abbia perso ogni sostanza.
Il movimento operaio marxista non ha dunque percepito distintamente questa ambiguità – una vera e propria testa di Giano della modernità – accettandola in quanto verbo del Maestro, magari malvolentieri e in un senso generale, in quanto parte della propria natura. Nell’opera di Marx questa contraddizione si manifestò ancora nella forma di un conflitto irrisolto tra il “punto di vista del lavoratore” e la critica dell’economia politica, ma il marxismo degli epigoni eliminò quasi totalmente la decisiva critica formale marxiana del lavoro produttore di merce e si tenne fermo alla sua ostinazione sulla società del lavoro.
Del resto fino alla seconda metà del XX° secolo lo sviluppo empirico non fornì alcun punto d’appoggio alla logica della critica marxiana che, proprio per questa ragione, appariva oscura. Lo sviluppo delle forze produttive non aveva ancora raggiunto la soglia oltre la quale il principio di base della società del lavoro diviene obsoleto. Perciò la critica della concorrenza nell’orizzonte della società del lavoro restò, ancora per lungo tempo, avvolta da una luce ambigua. Ma in forza di questa concezione il lato emancipatorio della concorrenza non poteva essere identificato.
Il capitalismo veniva concepito in modo astratto o come una formazione “storicamente necessaria” in seno alla società del lavoro (pensata come ontologicamente insuperabile), che aveva ormai fatto il suo tempo oppure (e proprio da quelle correnti che si presumevano particolarmente radicali e critiche) come un semplice “errore fin dal principio” che si sarebbe potuto e dovuto correggere in qualsiasi momento, ovviamente dal “punto di vista del lavoratore”. Anche qui fa la sua ricomparsa l’accusa insensata rivolta dai “radicali di sinistra” contro i bolscevichi ossia di non avere concretizzato un’utopia (nient’altro che l’ideale borghese) che, secondo loro, era invece realizzabile in qualsiasi momento.
In questo modo la concorrenza invece che un elemento propulsivo apparve piuttosto come uno scandalo morale e un cattivo principio, puramente negativo e da abolire quanto prima. Il movimento operaio marxista non comprese mai di avere liberato i lavoratori non dalla concorrenza, ma solo per essa; invece e, in modo paradossale, cercò di sospendere e liquidare la concorrenza, assolutizzando uno dei suoi segmenti – cioè la classe operaia –, che come tale poteva sorgere solo grazie ad essa.
Nei paesi occidentali sviluppati il vecchio movimento operaio assolse appieno la sua missione e – dopo essersi disfato una volta per tutte di ogni enfasi e di ogni obiettivo trascendente – si trasformò in un banale elemento della concorrenza all’interno della società borghese. Invece nell’Unione Sovietica e negli altri paesi del socialismo reale la modernizzazione borghese di recupero condusse ad un nuovo paradosso della riproduzione sociale. La contraddizione interna al capitalismo non venne affatto superata ma, al contrario, addirittura raddoppiata. La Rivoluzione d’Ottobre generò un sistema produttore di merce moderno ma senza permettergli di obbedire al suo meccanismo funzionale; la concorrenza tra i partecipanti al mercato venne eliminata e sostituita dal comando statale.

4.4 L’esaurimento della dinamica capitalista nel socialismo reale

L’ideologia del movimento operaio – la cui incarnazione sociale fu il socialismo reale – non fece altro che contrapporre determinate categorie reali borghesi al loro polo complementare: “lavoro” contro “capitale”, l’elemento statalista contro quello monetarista del principio della concorrenza. Ma questa ideologia traeva la sua cruda e materiale ragion d’essere dai rapporti stessi e anche la sua affermazione concreta nelle regioni relativamente sottosviluppate della socializzazione mondiale capitalistica agli albori, non fu assolutamente un “errore” bensì una conseguenza proprio di tali rapporti.
Il paradosso logico di un sistema produttore di merce senza concorrenza aveva il suo fondamento nel paradosso storico per cui, all’inizio del XX° secolo, una nuova economia nazionale autonoma avrebbe potuto svilupparsi solo mediante l’assolutizzazione dell’elemento statalista. La concorrenza doveva essere soppressa proprio a causa della concorrenza; per poter resistere alla concorrenza esterna dei paesi occidentali relativamente più sviluppati – così da non essere assorbiti da questi o degradati a regioni marginali debolmente sviluppate – la concorrenza interna doveva essere soppressa attraverso il comando statale nel senso stalinista. Il convogliamento di masse di plusvalore, strategicamente “pianificato”, generate dal processo di accumulazione, messo in movimento con metodi brutali all’interno, verso i settori centrali dell’industria di base e delle infrastrutture, fu possibile solo a patto di disattivare il principio funzionale della stessa produzione di plusvalore.
Ma la conseguenza di questa paradossale sospensione della concorrenza interna nel sistema dell’economia sovietica, fu che lo strumento finì col ritorcersi contro il suo stesso scopo, ma d’altronde per raggiungere quello scopo non vi era a disposizione nessun altro strumento. La stessa logica che aveva prodotto l’assolutizzazione e la pietrificazione dello statalismo sovietico con la sua economia di guerra, ne causò anche l’inevitabile obsolescenza. Tutto ciò che l’economia di comando aveva edificato per mezzo della pianificazione strategica del plusvalore, finì schiacciato sotto il peso insostenibile della stagnazione.
Nel corso della storia, questa logica drammatica dell’inutilità non poté balzare agli occhi immediatamente e anzitutto per due ragioni. Da una parte nel corso della prima fase di espansione estensiva del sistema produttore di merce sovietico vennero effettivamente ottenuti dei successi sotto forma di tassi di crescita elevati. Fu fin troppo facile dato che le masse contadine furono [hineingepeitscht, -gebrandmarkt, -gefoltert] nel dispendio astratto della loro forza–lavoro, per usare le parole di Marx. Masse colossali di produzione in parte frutto di un’economia di sussistenza, a un livello di bisogni estremamente basso, e che non sarebbero mai state registrate dalla moderna statistica economica, furono incorporate per la prima volta nella macchina del lavoro sociale e metabolizzate dall’industria.
Parallelamente vennero fatti enormi investimenti nell’industria pesante e di base, ovvero nelle infrastrutture, dove non si poté quasi commettere errori – nonostante tutti i deficit dell’economia di comando, già allora perfettamente riconoscibili – e che garantirono di per sé una crescita a larghe falcate. Dal momento che questi processi innalzarono, almeno parzialmente, anche il livello dei bisogni e generarono gli elementi di quella “missione civilizzatrice” del capitale, celata sotto la maschera socialista dell’economia di guerra statalista, dilagò nell’Unione Sovietica, seppure provvisoriamente, una sorta di euforia da costruzione che si sarebbe ripetuta più tardi in alcuni paesi del Terzo Mondo – e in modo addirittura più effimero – e che creò tutta una sovrastruttura di letteratura edificante socialista.
Inoltre, nel corso di questa fase e non solo a causa degli elevati tassi di crescita, poteva sembrare che la nascente economia sovietica fosse in grado di riagguantare l’Occidente e in un tempo storicamente prevedibile. A quell’epoca anche l’Occidente stava attraversando una fase statalista in ascesa che abbracciò tutta la prima parte del XX° secolo. Le strutture dell’economia di guerra, tipiche del periodo delle due guerre mondiali, costrinsero a battere in ritirata il meccanismo della concorrenza caratteristico del principio monetarista antagonista, anche se in Occidente lo statalismo non si cristallizzò mai fino a diventare un sistema come accadde invece in Unione Sovietica; inoltre l’ultima crisi – nonché la maggiore – del sistema produttore di merce, scoppiata nel bel mezzo della sua ascesa a forma di socializzazione mondiale capitalistica, rallentò lo sviluppo, rinsaldò le tendenze stataliste e creò un clima da fine epocale che impregnò di sé tutte le reazioni ideologiche, fino alla Teoria Critica. La situazione mutò radicalmente solo dopo la Seconda Guerra mondiale, durante l’epoca fordista, il periodo di massimo splendore del capitalismo, giunto alla sua maturazione definitiva come sistema mondiale totale. Sotto l’egida della Pax Americana la concorrenza, una volta affrancatasi dalle strutture dell’economia di guerra e di crisi e partendo da un livello di sviluppo più elevato, in una serie di nuove grandi avanzate stimolò lo sviluppo delle forze produttive e la scientificizzazione, fino alla più recente introduzione della microelettronica e dell’informatica con potenziali di automatizzazione fino allora impensabili in tutti i settori della riproduzione sociale. Per le unità aziendali questo processo rappresenta la “costrizione silenziosa” di una concorrenza sempre più riferita alla sfera del mercato mondiale e diretta all’intensivizzazione del processo produttivo, ovvero la costrizione a sempre nuova razionalizzazione, scientificizzazione e automatizzazione.
In questo processo di dinamicizzazione del capitalismo nel corso del dopoguerra, l’intensificazione della produzione di plusvalore si accrebbe fino a raggiungere dimensioni empiriche completamente nuove. Ma per questa via i sistemi cristallizzati della produzione di merce del socialismo reale, con la loro economia di guerra, non furono più in grado di tenere il passo dell’Occidente. Le economie da caserma e di comando del sistema sovietico, orientate fin dal principio alla produzione estensiva di plusvalore – e in cui l’aumento della produttività, incessantemente preteso, poteva essere invocato solo mediante ukase statali e campagne di propaganda moralistica –, persero ben presto terreno e di conseguenza la loro decadenza divenne un fenomeno inevitabile.
Adesso il mezzo si vendicava del suo stesso scopo; l’abolizione del principio interno della concorrenza, necessario per l’instaurazione “di recupero” di un’economia nazionale nella forma della società del lavoro, si ripercosse non solo sulla concorrenza esterna (tra i sistemi) ma anche sul complesso della riproduzione sociale. Ironia della storia: come disse il Segretario Generale Gorbaciov “la vita castiga chi arriva tardi”; in altre parole la “vita” del capitale castigò chi le aveva rubato l’anima meccanica del principio della concorrenza, spacciando il tutto per socialismo.
In modo altrettanto ironico l’assolutizzazione del principio capitalista del lavoro, portata avanti dal marxismo, si traduceva nella crescente invalidità del dispendio di forza–lavoro delle società del socialismo reale sul livello della società mondiale; questo perché tale dispendio era caduto molto al di sotto dello standard della produttività globale. Il presunto superamento del carattere contraddittorio del capitalismo, sulla base però dei suoi stessi presupposti, invece di abolire il capitale come tale, non aveva fatto altro che sopprimere a lungo quella “contraddittorietà” insieme con la sua dinamica interna.
Perciò il socialismo reale, nel corso della dinamicizzazione capitalistica del dopoguerra, finì sempre più ottenebrato, un idiota storico ossessionato dal lavoro e che sotto questo riguardo voleva essere più capitalista del capitalismo. La divinizzazione del lavoro, deprivata del principio della concorrenza, ben lungi dal potere “raggiungere e superare” il capitalismo occidentale del dopoguerra o addirittura inaugurare una società alternativa qualitativamente nuova, generò nel migliore dei casi un grottesco fordismo bonsai, il cui emblema avrebbe potuto benissimo essere la malcongegnata e maleodorante vetturetta dell’industria automobilistica tedesco–orientale.
In una lunga battaglia di retroguardia – fatta di sforzi riformisti che però in fin dei conti si limitavano solo a fare qualche concessione in un modo o nell’altro al principio della concorrenza, senza però incidere sulla base da economia di guerra del sistema, cristallizzata nel suo statalismo –, le economie da caserma si gettarono all’inseguimento dell’Occidente e dei loro stessi piani, ma con speranze di successo sempre più risibili. Questo fenomeno lo si può documentare facilmente e in modo empirico, ad esempio usando come termini di paragone la RDT e la RFT. In una ricerca pubblicata già nel 1985 il confronto delle rispettive produttività, con una previsione per il 1990 piuttosto precisa, dimostra una sensibile caduta a sfavore della RDT (in percentuale, RFT = 100)


_________1960_1970_1984_1990
Produttività__70__55___46___35
Salari reali___78__58___44___35

(Fonte: Wirtschaftswoche Nr. 36, 30.8.1985)

Il rapporto è ancora più sfavorevole se si prendono in considerazione solo le industrie chiave, in particolare quella automobilistica. Una sintesi della situazione ci viene offerta da questo rapporto di Horst Sieber, presidente dell’Istituto per l’Economia Mondiale di Kiel:

Mentre negli ultimi vent’anni, nella Repubblica Federale, il numero degli occupati dell’industria è diminuito costantemente da 10,1 a 8 milioni, nella RDT questo numero è addirittura aumentato. Siebert cita l’industria automobilistica come esempio di scarsa produttività: i kombinat–ifa, con i loro 65.000 addetti, producono solo 200.000 auto all’anno. La Toyota, con lo stesso numero, ne produce ben quattro milioni. Con un rapporto di produttività di 1 a 20 questa industria non è assolutamente in grado di competere. (Handelsblatt 25.5.1990).

Risulta così evidente come la “casa di lavoro” del socialismo da caserma avesse congelato e mantenuto su uno standard ormai superato da tempo, un ”onore del lavoro” sempre più obsoleto. Solo in questo modo esso poté garantire la piena occupazione, osannata come un presunto “potere della classe lavoratrice”, e addirittura dimostrarsi ingenuamente orgoglioso del fatto che regnasse la scarsità di forza–lavoro, che adesso viene smascherato come l’orgoglio di lavorare in modo improduttivo.
La caduta sempre più drastica della produttività della società del lavoro del socialismo reale va di pari passo con un corrispondente ritardo nel processo di integrazione della riproduzione. Un’integrazione progredita è il presupposto per un superamento della produzione di merce e per un’effettiva trasformazione rivoluzionaria della società borghese. Questo ritardo lo si può constatare dal grado di terziarizzazione che oggi rappresenta un indice del livello di scientificizzazione. Mentre nel 1987, ancora il 58% degli occupati della RDT lavoravano nell’agricoltura oppure nell’industria e solo il 42% nel settore terziario, nella RFT solo il 46% era impegnato nella produzione materiale contro il 54% del settore terziario. Questo ritardo nello sviluppo dell’integrazione lo si può osservare anche nella profondità dell’interconnessione industriale. Sono noti da tempo i risultati di una ricerca dell’Istituto per la Ricerca Economica della Renania–Westfalia (RWI):

Anche l’interconnessione delle singole industrie tra di loro e con le imprese commerciali e di servizi è più fievole nella RDT che nella RFT. […] Una ragione consiste nel fatto che i kombinat devono reagire alle difficoltà nel rifornimento di semilavorati attraverso una produzione autonoma. Nella Repubblica Federale, al contrario, la divisione intersettoriale del lavoro si è intensificata. (Handelsblatt 8.5.1990)

L’ironia della storia si manifesta anche sotto questo riguardo: nel socialismo reale la socializzazione reale, materiale, è assai più flebile che in Occidente. Nella stessa misura in cui la produttività relativamente bassa, al contrario che in Occidente deprivata dello stimolo della concorrenza, si è paralizzata ben al di sotto del livello critico necessario per il superamento del lavoro, anche l’interconnessione relativamente debole si è paralizzata al di sotto del livello critico di superamento della forma–merce. L’economia da caserma non ha solo conservato il dispendio di forza–lavoro ma ha mantenuto separate tra loro le singole imprese sul piano tecnico–materiale. La contraddizione interna del capitale si è pertanto esaurita ben prima di raggiungere la sua “massa critica”. Ma poiché il capitale, all’apice del suo sviluppo, può esistere solamente su scala mondiale, la crisi e il collasso dell’Est furono provcate proprio dall’esaurimento di questa dinamica.
In quest’ottica sarebbe un errore ancora più grave attendersi una soluzione per i deficit ormai catastrofici del socialismo reale, dal riallineamento e dall’adattamento, apparentemente all’ordine del giorno, all’economia concorrenziale occidentale “vittoriosa”. Questa considerazione alquanto superficiale disconosce completamente il fatto che tali deficit erano già un risultato storico delle contraddizioni capitalistiche. L’abolizione della concorrenza interna non fu un “ abbaglio”, un “errore” tale da essere ora semplicemente “corretto”.
Al contrario la crisi che ha portato al crollo del socialismo reale, al livello attuale della socializzazione capitalistica, è legata allo stadio di sviluppo del sistema complessivo globale. Ora più di prima appare come una conseguenza della “non contemporaneità” di tale sistema. La crisi della società del lavoro del socialismo reale marca la crisi incipiente della moderna società del lavoro tout court e proprio perché in Occidente i meccanismi della concorrenza furono talmente efficaci da minare e corrodere i fondamenti del sistema produttore di merce stesso. Era nella logica di questo sistema che le sue parti più fragili per quel che riguarda la produttività e l’interconnessione fossero le prime a precipitare nella voragine del crollo sistemico; ma presto o tardi l’avanzata del processo di scientificizzazione che oltrepassa i limiti logici del sistema produttore di merce sorprenderà lo stesso Occidente e segnali in questo senso sono visibili ormai da tempo.
E’ vero, la vita castiga chi arriva troppo tardi. Ma se i paesi dell’ex–socialismo reale, con molto zelo ma scarsa ponderazione, si dirigono risoluti verso il mercato mondiale dell’economia concorrenziale sperando di trovarvi la salvezza, sfortunatamente per loro arrivano in ritardo per la seconda volta e la “vita” sembra avere in serbo per loro punizioni ancora più atroci di quelle sperimentate finora. In realtà tutta la moderna società del lavoro è ormai giunta al capolinea e assieme ad essa anche le categorie di base della forma–denaro e della forma–merce. L’analisi isolata della crisi definitiva del socialismo reale disconosce completamente la logica della crisi del principio di concorrenza che si scatenerà come emancipazione negativa nelle prossime avanzate della crisi della produzione mondiale di merce.


Note

1. L’espressione “economia naturale” documenta la tenebra concettuale che domina nella comprensione della critica marxiana dell’economia politica. Già nel dibattito socialista del primo dopoguerra, la soppressione della forma–merce venne confusa con una “abolizione del denaro” soltanto esteriore: ma su quella strada la logica di base, del tutto incompresa, del sistema produttore di merce non doveva assolutamente essere superata ma soltanto portata a compimento ad opera dello Stato, nella forma immediatamente materiale di una “economia naturale” senza il “velo del denaro”. Le origini di questo dibattito non vanno ricercate nella critica marxiana all’economia, ma nell’economia politica borghese i cui esponenti ancor oggi non riescono a decidere se un “sistema fondato sullo scambio di merce” sia concepibile o meno senza il denaro; un modo davvero insulso di porre la questione.
2. Questo è visibile, non da ultimo, nel fatto che in questa concezione del socialismo i lavori subalterni, di scarso valore, sudici e/o meccanici non vengono affatto “aboliti”; al contrario sono i loro portatori ad essere “riconosciuti” come cittadini di “egual valore” e come uomini a tutti gli effetti con la premessa che tutti i lavori, in egual misura, contribuiscono alla ricchezza nazionale e sono quindi meritevoli di rispetto. Naturalmente, dietro i fronzoli della retorica morale, si cela anche qui l’effettiva indifferenza del lavoro astratto e delle monadi che lo erogano in quanto possessori della merce forza–lavoro.
3. C’erano state storicamente le eccezioni, citate da Marx, delle società dell’India antica e degli Inca dove una divisione del lavoro, spinta oltre i fondamenti di una società primitiva, non aveva generato le categorie della merce e del denaro; in queste società il collante sociale era costituito da istituzioni religiose che non avevano nulla in comune con lo Stato moderno. Questi rami collaterali dello sviluppo sociale umano non possono certo essere raccomandati come una prospettiva civilizzatrice perduta o “totalmente altra”; al contrario essi sembrano avere generato solo una divisione del lavoro di infimo livello (per esempio gli Inca non conoscevano neppure la ruota). Si tratta perciò di eccezioni che confermano la regola.
4. Questa contraddizione nel processo di modernizzazione, mediata dalla concorrenza, rese possibile, in ogni tappa della sua affermazione, anche un’opposizione di carattere conservatore, a cominciare dagli apologeti del feudalesimo per arrivare ai “conservatori dei valori” dei nostri giorni. L’opposizione reazionaria combatte il lato emancipatorio della modernizzazione cui viene rinfacciato il lato negativo e distruttivo del medesimo processo.
5. E per questa ragione illuministico a buon diritto, visto che l’Illuminismo nella sua “incapacità di illuminare se stesso” (Hegel) aveva largamente interpretato la storia anteriore come “errore” e come “deviazione dalla ragione”; sotto questo e altri riguardi l’ideologia del movimento operaio, inclusi determinati elementi del marxismo, si è rivelata solo come un “secondo passaggio” dell’Illuminismo borghese nell’orizzonte del sistema produttore di merce, insuperato anche sul piano teorico e come un’espressione immanente della forme di coscienza da esso costituite.
6. Questo tipo di letteratura che fungeva da “musica di accompagnamento” dell’accumulazione originaria “di recupero”, per quanto sincere potessero essere le sue intenzioni iniziali, degenerò ben presto nel suono ottuso della propaganda di Stato; nella periferia occidentale dell’Unione Sovietica essa venne smascherata fin dall’inizio come una cialtroneria menzognera poiché in quei paesi l’instaurazione forzata di un’economia statale da caserma non poté mai contare su un fondamento storico, anche solo relativo, nelle condizioni dello sviluppo.
7. L’esempio citato si relativizza un po’ se si includono nella Toyota anche le industrie fornitrici che sono già parzialmente integrate nella struttura produttiva del conglomerato-ifa per ragioni di articolazione dell’organizzazione. Da questo punto di vista il vantaggio nella produttività di Toyota si riferisce solo all’impresa considerata singolarmente (a spese dei fornitori) e non alla società come un intero. Tuttavia anche tenendo conto di tale effetto la superiorità della società complessiva nella produttività resta pur sempre enorme.
8. A proposito dello sfacelo della RDT, una parte degli apologeti “critici” e degli esponenti della sinistra occidentale ha avuto l’impudenza di imputare la catastrofica arretratezza della produttività tedesco-orientale alle “diseguali condizioni di partenza” all’indomani del secondo conflitto, con tutti gli svantaggi che ne derivavano. In realtà è proprio la RDT, un paese già industrializzato, a offrirci il criterio di paragone migliore; cifre alla mano, nella fase iniziale, in cui vigevano le “peggiori condizioni di partenza”, lo scarto nella produttività tra RDT e RFT era addirittura inferiore e ancora fino agli anni ’60 non veniva percepito in modo troppo drammatico. Esso si è accresciuto man mano che le due Germanie si sono allontanate dalle loro condizioni iniziali per mettersi alla prova in forza dei propri fondamenti. Questa sterile argomentazione rivela solo l’anacronistico radicamento nella costellazione e nel pensiero del dopoguerra di questa sinistra, che risulta del tutto incapace di formulare un concetto critico (figuriamoci una critica radicale) del sistema produttore di merce e della sua logica contraddittoria.