mercoledì 29 aprile 2009

La rottura strutturale del capitale e il ruolo della critica categoriale



INTERVISTA A ROBERT KURZ DELLA RIVISTA ONLINE PORTOGHESE “SHIFT”, ZION EDIÇÕES

(30/11/2008)


Come si inquadra l’attuale crisi finanziaria nel contesto dello sviluppo della crisi strutturale del capitale?
É teoricamente sbagliato parlare di una crisi finanziaria indipendente, la cui «ripercussione» sulla cosiddetta economia reale sarebbe incerta ed eventualmente moderata. Espressa nei termini della teoria di Marx, la crisi finanziaria può essere solo una manifestazione della caduta delle condizioni della valorizzazione reale del capitale. Il sistema finanziario e del credito non è un settore autonomo, ma una componente integrante della riproduzione ampliata del capitale totale. Qui sorge una contraddizione che progressivamente si aggrava. L’espansione del sistema del credito in sé non è nuova, ha già percorso un processo secolare. Ciò riflette un meccanismo descritto da Marx come «aumento della composizione organica del capitale». Con l’aumento della scientifizzazione della produzione, cresce la proporzione del capitale costante (macchine, equipaggiamento tecnologico di controllo, comunicazioni e infrastrutture, etc.) in relazione al capitale variabile (forza lavoro produttiva di valore). Corrispondentemente, crescono i costi preliminari per poter applicare in forma redditizia la forza lavoro, l’unica fonte di plusvalore. I costi preliminari crescenti esigono un anticipo del plusvalore futuro nella forma del credito per mantenere in corso l’attuale produzione di plusvalore, sempre più differito nel futuro.

Ciò crea una tensione crescente nella connessione interna tra credito e valorizzazione reale. Nel passato, questa contraddizione poté essere compensata grazie all’effetto sociale collaterale della scientifizzazione. L’aumento della produttività deprezza gli alimenti e, dunque, riduce anche il valore della forza lavoro, dato che i costi della sua riproduzione si abbassano. Lo stesso meccanismo che comporta che la proporzione del capitale variabile (forza lavoro) nella composizione organica del capitale sia relativamente minore, comporta anche che la forza lavoro debba produrre meno valore per la propria conservazione. Aumenta la proporzione di plusvalore nel totale del valore reale creato, ciò che Marx designa come produzione di «plusvalore relativo». Ma ciò si applica solo a ogni forza lavoro individuale produttiva dal punto di vista capitalistico. Il presupposto perché si abbia un effetto compensatorio in termini di valorizzazione sociale è, dunque, che parallelamente si espanda il capitale reale totale così che cresca in termini assoluti il numero dei lavoratori utilizzabili in condizioni produttive dal punto di vista capitalistico – malgrado il minor peso relativo del capitale variabile nella composizione di un certo capitale monetario avanzato. Inoltre, solo sotto questa condizione l’anticipo di plusvalore futuro, sempre più differito nel futuro per mezzo dell’espansione del credito, può essere rimborsato, perlomeno nella misura in cui la connessione tra credito e valorizzazione reale non è completamente rotta. Fintanto che questa connessione in qualche modo funzionava, anche la contraddizione si esprimeva soltanto relativamente, con la famosa caduta tendenziale del saggio di profitto. Il saggio di profitto medio si riferisce a un capitale monetario di qualsiasi ordine di grandezza. Questo saggio va cadendo in un processo secolare, a causa della crescente quota dei costi preliminari del capitale costante, il quale non produce qualche nuovo valore ma trasferisce solamente valore già creato. Ma se la massa sociale totale del capitale monetario avanzata nell’applicazione produttiva del valore cresce sufficientemente, malgrado la diminuzione del saggio di profitto per capitale monetario applicato, può continuare contemporaneamente a salire la massa di plusvalore reale assoluto e la massa di profitto del capitale totale. Marx analizzò questa connessione, nella quale il risultato storico rimane aperto, nel Primo Volume (produzione di plusvalore relativo) e nel Terzo Volume (tendenza alla caduta del saggio di profitto) de Il Capitale. A un livello elementare di «sostanza del valore» in quanto «sostanza del lavoro», Marx, d’altra parte, nei Grundrisse afferma che la concorrenza, costringendo all’aumento permanente della produttività, deve portare finalmente a una riduzione assoluta della forza del lavoro produttivo di valore e, così, a un limite storico assoluto della valorizzazione. Su questo aspetto, tuttavia, la teoria di Marx è rimasta da sviluppare.

La fase fordista è stata l’epoca alta del plusvalore relativo, con l’espansione contemporanea del capitale reale totale. Il continuo anticipo del credito sembrava realizzabile. La teoria di un limite interno assoluto della valorizzazione era considerata superata, anche a sinistra. La contraddizione tra sistema del credito e produzione di plusvalore reale raggiunge però nel contesto della Terza Rivoluzione Industriale, quella della microelettronica, un punto culminante, assumendo una nuova qualità. L’espansione del capitale reale raggiunge i suoi limiti storici poiché, contemporaneamente, con la nuova qualità della scientifizzazione, la «sostanza lavoro» produttiva di valore si scioglie in una scala senza precedenti. L’aumento del plusvalore relativo per singola forza lavoro comincia a perdere il suo carattere di meccanismo storico di compensazione. Ciò trasforma la solo relativa caduta tendenziale del saggio di profitto per capitale monetario applicato, in caduta assoluta della massa di plusvalore sociale reale e, dunque, della massa di profitto. La connessione tra il differimento dell’ampiamente anticipato plusvalore futuro nella forma del credito e la produzione del plusvalore reale è irreversibilmente squarciata. Ciò che si manifesta come una devastante crisi finanziaria è soltanto la manifestazione empirica della contraddizione maturata nel livello empiricamente intangibile delle relazioni reali del valore.

Siamo dunque di fronte a una «rottura strutturale» di ordine superiore. Se fino ad ora si è parlato di una «crisi strutturale» del capitale, per esempio nel contesto della «teoria delle onde lunghe», era solamente in relazione alla «transizione» per un nuovo «modello di accumulazione». La crisi dovrebbe cioè avere solo una funzione di «pulizia», al fine di aprire il cammino al successivo impeto storico della valorizzazione su una nuova base tecnologica. Questo è stato il famoso concetto dell’economista Joseph Schumpeter della potenza del capitale come «distruzione creativa». Ma la fine dell’era fordista non ha portato a qualche rottura strutturale «creativa», nel senso di un nuovo «modello di accumulazione». La tanto invocata transizione verso il cosiddetto «postfordismo» non era che una formula vuota. Ciò che in realtà è accaduto non è stato altro che la transizione verso la famigerata «economia delle bolle finanziarie» in cui il sistema del credito è stato gonfiato molto al di là della capacità decrescente della produzione reale del valore, in una maniera storicamente senza precedenti.

Qui è sorta, a causa di una percezione positivista, che non riesce a riconoscere la connessione interna delle relazioni del valore, l’illusione ottica di un «modello di accumulazione» di fatto nuovo. Da un lato, il «postfordismo» consisterebbe nella delocalizzazione della produzione industriale di plusvalore verso la periferia, verso i cosiddetti paesi emergenti (più recentemente, nella forma del presunto «miracolo di crescita» asiatico). In realtà, il punto di partenza e la forza motrice di questa delocalizzazione non è consistita in ricette monetarie di creazione di valore, ma nel «capitale fittizio» delle bolle finanziarie senza sostanza, già da tempo slegate dall’applicazione produttiva della forza lavoro umana. Da questa forma si è messa in movimento una congiuntura globale del deficit, ora sul punto di una brusca caduta. Dall’altro lato, il «postfordismo» creerebbe nei centri capitalistici una cosiddetta «società dei servizi», immaginata come nuovo campo indipendente della valorizzazione. In realtà si è trattato in gran parte di settori improduttivi dal punto di vista capitalistico, come la «prestazione di servizi personali» privata, che non hanno il loro punto di partenza e il loro sostegno nella creazione reale di valore e nei rendimenti da qui ottenuti, ma nel rigonfiamento del «capitale fittizio» e nella mera simulazione dei processi di valorizzazione. Così, la pretesa transizione verso un’«economia dei servizi», non si è realizzata come espansione delle infrastrutture statali, per esempio nella salute e nell’educazione, che già negli anni ‘70 è stata un fallimento, ma, piuttosto, nella forma della prestazione precarizzata dei servizi in piccole imprese private dai bassi salari, e nella forma del «falso lavoro autonomo», entrambi ora minacciati di estinzione.

Su questo è necessaria ancora un’osservazione relativamente all’evoluzione teorica nella sinistra. L’ideologia postmoderna della «virtualizzazione» ha portato a un adattamento della critica sociale di sinistra al capitalismo di crisi e simulativo. Si è cominciato sempre di più a parlare di una crescita appena «finanziariamente indotta», alla quale si pretendeva adattarcisi «simbolicamente». Le categorie basilari della critica dell’economia politica di Marx non solo sono rimaste positivisticamente incomprese, come nel marxismo tradizionale, ma fatte scomparire del tutto. E il problema della potenza della crisi non solo è stato ridotto a una «funzione» di «pulizia», ma anche reinterpretato soggettivamente e semplicisticamente dissolto in «relazioni di volontà politiche». Paradigmatico del caso è il post-operaismo di Antonio Negri. Nella misura in cui vi sono «crisi», queste sono interpretate come reazione «politicamente volontaria» e cosciente, dei capitalisti e delle loro frazioni, alle gloriose «lotte» della cosiddetta moltitudine. Ma se l’attuale dinamica di caduta globale è un atto politico deliberato dell’Impero capitalista, allora lo deve essere più come «reazione» allo spirito di mia nonna che alle «lotte» ormai da molto tempo soltanto simboliche di un capitale variabile demoralizzato, senza potere di intervento reale nei centri capitalistici. Ma, come è spiegato in modo insuperabile nella teoria di Marx, il vero limite della valorizzazione è strettamente obiettivo e si erge «dietro le spalle» degli agenti. L’emancipazione sociale dalla logica capitalista, al contrario, non può in modo alcuno essere «obiettiva»; e perciò essa esige la critica radicale delle categorie fondamentali del capitalismo, le quali sono state «interiorizzate» dall’umanità e ampiamente rimosse dalla sinistra. La sinistra deve ancora digerire l’obiettività negativa della crisi e anche confrontarsi con se stessa e con le sue illusioni postmoderniste.


A Suo avviso, è un buon momento per diffondere una critica radicale del sistema del capitale? Oppure, considerando che le condizioni materiali basilari di milioni di esseri umani sono sempre più degradate, non sarà possibile andare oltre il keynesismo e la nostalgia dello Stato sociale?


Apparentemente si verifica una delegittimazione generale del capitalismo, perfino nella classe politica e nelle pagine culturali. Il concetto in sé di capitalismo è diventato peggiorativo dal giorno alla notte, come se non fosse sempre stato proclamato «vincitore della storia». Ma questa «svolta» improvvisa e non mediata non può smettere di apparire sospetta e indegna di credito. Negli ultimi decenni il neoliberalismo è penetrato profondamente nella coscienza delle masse come tendenza verso il «radicalismo di mercato», individualizzazione astratta e desolidarizzazione di «atomi sociali» autistici. La relazione individuale diretta con il mercato universale e la concorrenza universale diventano condizioni di vita e non sono più filtrate socialmente. Queste forme di vita, in una società disintegrata, sono ora colpite con tutta la forza dalla nuova qualità della crisi globale e scosse nei loro fondamenti.

Si tratta in primo luogo di uno shock della funzione legittimatoria. Lo «spirito dominante» della svolta neoliberale si è screditato completamente in modo vergognoso. Fino ad ora, però, il crollo devastatore è stato percepito in modo perfettamente fantasmatico, cioè soltanto come spettacolo nei mercati finanziari e nei media globali. Una notizia catastrofica dietro l’altra, perché la crisi non ha raggiunto ancora la riproduzione «reale» e la vita quotidiana. I primi preannunci sono le perdite drammatiche nelle vendite dell’industria dell’automobile e dei suoi fornitori. Però la dinamica di crisi andrà colpendo successivamente non solo tutti i settori della produzione di merci (industria, mezzi di comunicazione e servizi), ma tutte quelle aree della vita che per decenni sono diventate dipendenti dal rigonfiamento del credito perché non potevano più essere alimentate dalla produzione reale del plusvalore e dalla sua redistribuzione sociale; dall’educazione alla cultura e alla salute, passando per le infrastrutture locali, fino alle cure rivolte agli anziani, etc. I programmi su misure onerose per combattere le alterazioni climatiche o per assicurare la salute, che continuano a essere discussi come se nulla fosse accaduto, non sono altro che spazzatura.

Questa dinamica di «disintegrazione della disintegrazione» non può essere adeguatamente digerita dagli individui sociali atomizzati; e ancor meno al ritmo che essa avanza. Gli esseri umani individualizzati sono in tutti gli aspetti «creature a credito», non ha importanza la misura della coscienza di questo fatto. Lo stesso si applica alla «religione del quotidiano» (Marx) del consumo di merci; il sistema delle carte di credito sarà probabilmente il prossimo collasso del settore finanziario. Tutto il discorso futile sugli «eccessi speculativi», che in ultima analisi dovrebbero essere impediti, non può nascondere il fatto che la dipendenza dal «castello di carte mondiali» della sovrastruttura finanziaria autonomizzata sia ben ancorata alla coscienza delle masse, in quanto condizione di vita. Pertanto la delegittimazione superficiale del «capitalismo» ancora non raggiunge la critica radicale del modo di produzione e di vita dominante. Solo le forme del capitale finanziario privato, le banche di investimento, gli hedge funds, etc., sono percepiti come «capitalisti». A misura che crolla l’economia delle bolle finanziarie, prima idolatrata, gli «esseri umani a credito» individualizzati invocano lo Stato per salvare la loro «pelle a credito» e poter continuare a vivere la loro vita capitalistica precarizzata. Il sistema di credito privato esaurito deve essere sostituito dal credito statale, che si vuole immaginare come inesauribile.

Naturalmente questo è un voltafaccia pericoloso. Perché è stata esattamente la credulità nella capacità illimitata del finanziamento statale che il discorso neoliberale dominante negli ultimi decenni ha denunciato come una grande aberrazione. E non è stato solo per ragioni ideologiche. Quando negli anni ‘70 la crescita fordista si esaurì e la connessione tra sistema di credito anticipato e la produzione di plusvalore reale cominciò a rompersi, fu in primo luogo il credito statale ad essere allungato oltre la capacità di creazione di valore sociale, per mantenere la congiuntura in funzionamento attraverso l’anticipazione del futuro. L’indebitamento statale keynesiano, senza soluzione, costituiva già una bolla finanziaria di tipo proprio. Come risultato, l’inflazione andò sempre più fuori controllo in tutto il mondo. Il neoliberalismo reagì a questo sviluppo, ma senza comprendere la sua causa profonda. Esso immaginava che il problema consisteva soltanto in un’espansione eccessivamente forte dell’attività statale e che si poteva rimediare con la deregulation radicale del mercato. Tuttavia, una volta che, nella realtà, l’aumento della composizione organica del capitale cominciò a trasformarsi in una caduta storica della massa di plusvalore reale e della massa di profitto, il rigonfiamento del credito, ormai senza soluzione, fu solamente dislocato dalla svolta neoliberale di Stato verso le bolle finanziarie di indebitamento e di speculazione del capitale privato. Dal momento che questa dislocazione non avveniva sul piano strettamente limitato dello Stato, ma nel contesto della globalizzazione transnazionale, poté essere simulata per più di trent’anni, con questa nuova modalità del credito senza copertura nella creazione del valore reale, una crescita il cui carattere deficitario si rivela soltanto adesso. Quando ora le élites, così come la coscienza delle masse, pretendono di ritornare immediatamente al finanziamento statale come ancora di salvataggio, sembrano soffrire di amnesia. Lo Stato, fino a poco tempo prima demonizzato, è più che mai elevato, con la migliore delle buone intenzioni, allo statuto di dio che deve eternizzare il flusso del credito, perché sarebbe «onnipotente», oltre i singoli interessi.

Ora, lo Stato non è di fatto l’agenzia indipendente di una «classe dominante» o di certi gruppi economici, ma l’istanza di potere generale soggiacente la società, che costituisce l’inquadramento esteriore della valorizzazione del capitale e di tutte le sue «maschere di carattere» (Marx). Ma necessariamente per questo lo Stato non sta «al di sopra» delle leggi obiettive del movimento del capitale e non può pretendere di controllarle o modificarle arbitrariamente; al contrario, esso non ne è meno soggetto di quanto lo sia il capitale individuale, si trova solamente su un livello sociale più elevato. Tutto quello che lo Stato fa deve essere finanziato, tanto quanto tutto quello che è fatto dal capitale singolo o dagli individui; e la fonte di questo finanziamento può essere solo la produzione di plusvalore reale. Lo Stato ottiene rendimenti in denaro a partire da questa fonte originale, sia direttamente, attraverso le tasse, sia acquistando denaro nei mercati finanziari, attraverso l’emissione di obbligazioni. Nel secondo caso, esso stesso è un attore al livello del capitale finanziario ed è vincolato alle sue condizioni. Che significa questo, nella crisi storica del credito e della crescita «finanziariamente indotta», da quello dipendente, di cui oggi soffriamo? I «pacchetti di salvataggio» del sistema finanziario fino ad ora lanciati dagli Stati, e i programmi statali di appoggio alla congiuntura in prospettiva, ancora non concretizzatasi in tutto il mondo, già ammontano a vari miliardi di dollari e di euro. Dove va lo Stato a prendere il finanziamento per tutto questo, se la crisi sta proprio nel fatto che la fonte di creazione del valore reale si è esaurita e il credito, come anticipo del plusvalore futuro, si è esaurito? Un aumento drastico delle tasse deprimerebbe ancora di più la produzione del plusvalore reale già languente. Una grande massa di titoli di Stato nei mercati finanziari otterrebbe lo stesso effetto, perché lo Stato si troverebbe a concorrere con le imprese e con le famiglie per il credito disponibile e così a dover tirare verso l’alto i tassi di interesse reali.

Se viene speso il denaro delle tasse riscosse dallo Stato e dei prestiti ottenuti nei mercati finanziari, dal punto di vista della logica della valorizzazione non si ha qualche produzione ma soltanto consumo. Infatti, anche nel caso che per esempio si finanzi la costruzione di strade o di scuole, ciò non darà luogo a qualche nuova creazione di valore ma sarà prosciugata la produzione reale del passato (imposte) o del futuro (credito). Ciò è vero a maggior ragione se lo Stato con questo denaro, nella forma di «pacchetti di salvataggio», intende soltanto tappare i buchi del sistema finanziario, comprare i crediti in cattivo stato delle banche, etc. Dopo la cessazione definitiva dell’economia delle bolle finanziarie e della congiuntura di simulazione, la responsabilità finanziaria statale ascende a valori molte volte superiori a quelli precedenti, già prima affondati. Una volta che non è possibile un aumento delle imposte né un’espansione del debito pubblico nella misura del necessario, resta solo, come ultima ratio, stampare banconote, creando denaro dal niente, e trasferirlo direttamente verso lo Stato, senza garanzie né contropartite. Ma la competenza delle banche centrali per creare moneta è meramente formale, «esprime» soltanto il processo di creazione del valore capitalista reale, senza poterlo sostituire. Il ricorso diretto all’emissione di banconote sarebbe la maggiore bolla finanziaria di tutte, e potrebbe finire solo nella completa svalutazione del denaro e di tutti i crediti, titoli, etc (iperinflazione, bancarotta statale, riforma monetaria).

La dislocazione del problema del credito dello Stato verso il capitale finanziario e l’attuale ritorno nuovamente verso lo Stato completano un cerchio senza uscita. Certamente, ora il fallimento sociale mondiale del sistema capitalista e della sua legittimazione neoliberale costituiscono un campo nel quale si può far valere la critica radicale delle forme capitalistiche basilari in un modo differente dal passato. Ma questo ancora non significa, in alcun modo, che questa critica radicale si renda già suscettibile di adesione da parte della coscienza delle masse, che ancora si muove interamente nelle categorie del feticismo moderno. É necessario, in primo luogo, prendere coscienza del paradosso che le condizioni materiali di esistenza in tutte le aree della vita sono dipendenti dalla virtualità del credito in dissoluzione. Da questo punto di vista, gli ostacoli a una negazione della totalità capitalista non diventano minori, ma maggiori. Se la propria esistenza è minacciata, le persone si aggrappano con tanta più forza alle condizioni dominanti. Ciò equivale a dire, oggi, che tutti i progetti di salvataggio del sistema del credito, per più illusori che siano, hanno uditorio, lo stesso se al prezzo di sfociare in ideologie assassine (antisemitismo o proto-antisemitismo). A maggiore ragione, la critica radicale deve contrapporsi al mainstream dello spirito del tempo, invece di lasciarcisi trascinare.


Come considera l’appropriazione da parte del sistema di concetti classici della sinistra, come «nazionalizzazione» o «regolazione dei mercati finanziari»?


Il programma dell’ala radicale del marxismo tradizionale assunse una formula marziale: la «dittatura del proletariato». Comunque era sempre l’organizzazione sociale che si trovava al centro dell’attenzione, benché legata ad una falsa ontologia del lavoro astratto. In realtà, il programma si trasformò su questa base ideologica in una mera nazionalizzazione delle categorie capitalistiche, cioè l’opposto dell’emancipazione sociale. Lo stesso Marx, nella Critica del Programma di Gotha, polemizzò contro questo feticismo dello Stato, sebbene egli stesso, in alcune formule precedenti, non ne fosse totalmente scevro. Nella pratica storica dei sistemi della «modernizzazione in ritardo» (Unione Sovietica, Cina, etc.), il concetto di «Stato dei lavoratori» ebbe soltanto una funzione legittimatoria per la riproduzione del capitalismo di Stato. La maggior parte dei partiti socialisti e comunisti in occidente trasformò questo requisito in un programma di «nazionalizzazione» delle banche e delle principali industrie del capitalismo. L’orientamento statale era solo vagamente legato al paradigma esaurito della «classe lavoratrice». Invece di questo divenne centrale il concetto di «nazione» e la «questione sociale» fu trasformata in una «questione nazionale». Questo «socialismo dai colori nazionali» assunse un carattere veramente reazionario rispetto alla «socializzazione mondiale» negativa del capitale. Esso già apparteneva alla storia della dissoluzione del marxismo tradizionale.

Nell’economia borghese emerse, in reazione alla crisi economica mondiale degli anni ‘30, un orientamento statale «moderato», attenuato, sotto la forma del keynesismo. Questa dottrina non ebbe mai nulla a che vedere con le speranze «socialiste» diffuse; al contrario, concepiva se stessa espressamente come programma di salvataggio del capitalismo mediante l’aiuto degli interventi statali, la cui base risiedeva nell’espansione continua del credito statale. Il «keynesismo di sinistra» tentò di trasformare questa dottrina in un senso quasi «socialista». Ma si trattò solo del vecchio orientamento per il capitalismo di Stato, nuovamente diluito e alleggerito, degli antichi «partiti operai», da tempo integrati nella classe politica del capitalismo. Il riferimento alla critica dell’economia politica di Marx fu definitivamente perduto. Il discorso del keynesismo di sinistra fondamentalmente non si riferì più all’analisi categoriale della «valorizzazione del valore» e della dinamica, nel contesto della forma capitalistica, di plusvalore relativo, aumento della composizione organica e caduta del saggio di profitto, né a una teoria della crisi su questa base. Per questa forma di pensiero la possibilità di una «crisi categoriale», attraverso la caduta della massa di plusvalore, fu completamente esclusa. Di conseguenza, la «critica categoriale» delle forme basilari del sistema del feticcio capitalistico diventò ancor meno percorribile che nel marxismo tradizionale dell’antico movimento operaio. Invece di ciò, la «critica» cadde in un «trattamento della contraddizione» nel quadro del capitalismo, non più esplicitamente contestato, dunque in una forma di «politica economica» borghese volgare, che dovette far affidamento ciecamente sull’espansione del credito statale, al fine di poter presumibilmente succhiare il miele sociale. Quando la scienza economica e la politica economica dominanti, sulla scia della «rivoluzione neoliberale», ufficialmente allontanarono la dottrina keynesiana, la sinistra politica teoricamente disarmata restò con il keynesismo per conto suo, senza percepire che stava sposando un cadavere storico. Il keynesismo appariva adesso come opposizione fondamentale al neoliberalismo in modo puramente formale, sebbene esso mai lo sia stata nel suo contenuto.

La recente svolta disperata delle élites economiche e politiche verso il credito statale rivela gli stessi piedi d’argilla dei partiti di sinistra, così come delle organizzazioni di movimento come ATTAC. Apparentemente, elementi centrali del keynesismo per sé consistentemente rappresentati (statalizzazione o «nazionalizzazione» delle banche ed eventualmente delle industrie chiave, regolazione dei mercati finanziari) sono repentinamente oggetto di nuovi onori. Tuttavia, non si tratta più di uno Stato-provvidenza keynesiano, come nel periodo finale della prosperità fordista nel decennio del 1970, ma di un keynesismo d’emergenza del capitale finanziario, che avanza di pari passo con l’aggravamento dell’amministrazione statale antisociale del lavoro e delle persone. É il paradosso del prolungamento del neoliberalismo con mezzi quasi keynesiani, perché nel limite interno resosi storicamente manifesto della valorizzazione non esiste più una qualche terza opzione. Il credito statale non sta fluendo verso programmi sociali, educazione, servizi sanitari etc, ma è lanciato nel buco nero dei bilanci debilitati. La sinistra keynesiana rimane disarmata di fronte alla nuova qualità della crisi perché non possiede alcuna nozione della medesima. Mentre essa crede di presentire la brezza mattinale keynesiana, nella realtà gli è presentato il conto della sua autoconsegna al modo di produzione e di vita capitalistici. Se vuole «evolversi» nella nuova espansione del credito statale portatrice di inflazione, essa stessa corre il rischio di rendersi parte integrante dell’amministrazione capitalistica della crisi. Indizi di questo già esistono in tutta Europa. Nel caso la sinistra di partito e di movimento si renda in questo senso «politicamente capace», e per le élites del capitale «socialmente capace», la sua «socialdemocratizzazione» potrebbe sfociare in una carriera nella base dello stato d’eccezione.


Che forme di mediazione possono essere stabilite tra le lotte immanenti per le condizioni basilari della sopravvivenza e la critica delle categorie di base del sistema del capitale (merce, valore, denaro, lavoro astratto, Stato, politica)?


Non c’è dubbio che la lotta sociale organizzata in modo extraparlamentare per le necessità materiali e culturali della vita, in resistenza contro la brutale riduzione del livello di civilizzazione, è l’unica alternativa alla collaborazione parlamentare «politica» di «sinistra» con l’amministrazione statale della crisi. Inevitabilmente sorgerà un contro-movimento sociale costituito di nuovo, inizialmente come «trattamento della contraddizione» immanente, che non delegherà più le necessità allo Stato ma presenterà esigenze autonome, anche se queste dovranno essere erette contro lo Stato. É il caso, per esempio, di un salario minimo legale, sufficientemente elevato, della resistenza contro nuovi tagli nei trasferimenti sociali e contro l’angheria repressiva delle misure coercitive dell’amministrazione del lavoro, contro la privatizzazione o la chiusura delle infrastrutture pubbliche vitali (per esempio l’assistenza medica). Ma sono all’ordine del giorno anche il dibattito sul bilancio dell’educazione e le critiche all’obsoleto e rigido legame dei contenuti dell’insegnamento e della ricerca alle necessità della valorizzazione del capitale.

Esiste un momento importante, nella mediazione della «critica categoriale», che consiste nell’apprendere come si può distinguere, nel «trattamento della contraddizione», tra forme che facciano avanzare e forme affermative. Ciò include, in primo luogo, il riconoscimento che la difesa delle necessità vitali per la via ufficiale della politica si è resa del tutto illusoria. Devono essere evidenziati i contenuti alternativi delle rivendicazioni sociali dirette, da un lato, e quanto sia futile la speranza nei programmi statali di congiuntura per nuovi investimenti di capitale, dall’altro. Questi ultimi agganciano in partenza le necessità sociali al «successo» della valorizzazione del capitale, sulla base in rovina del lavoro astratto, e alla «finanziabilità» da qui derivata, secondo criteri capitalistici. I primi, al contrario, possono aprire il cammino per la negazione del «terrore della finanziabilità» e per approssimarsi al superamento della forma valore e del denaro. Questa alternativa, a renderla effettiva nelle nuove condizioni di crisi, può anche collocarsi tra gli elementi «di sinistra» della classe politica, così conducendo a polarizzazioni; da qui, intanto si costituisce un contro-movimento sociale. Nell’antico movimento operaio già si avevano elementi di questa alternativa, anche se sotto il fondo ideologico di un’ontologia del lavoro astratto. Proprio per questa ragione i contro-movimenti sociali (anche in corrispondenza con la loro coscienza basata sull’ontologia del lavoro), furono sempre trasformati in orientamento statale e, come «marxismo di partito», vincolati a un intervento della politica; poiché lo Stato è appunto l’istanza sociale di sintesi sulla base del lavoro astratto. Nei limiti storici del lavoro astratto e della valorizzazione reale del capitale, l’alternativa tra contro-movimento sociale e statalismo si pone adesso in forme completamente nuove e deve essere formulata conseguentemente, dato che la speranza nel credito dello Stato può solo svergognarsi con lo scatenarsi dell’inflazione e non contiene più dunque un qualsiasi potenziale sociale.

Un secondo momento di mediazione è la critica di tutte le forme di esclusione sociale, siano esse articolate apertamente o indirettamente e in modo subliminale. Intanto che i movimenti sociali opereranno sul piano del «trattamento della contraddizione» immanente, si avranno sempre queste tendenze. Già nell’antico movimento operaio si ebbero forti sentimenti negativi contro gli strati inferiori dequalificati. Oggi possiamo osservare atteggiamenti simili da parte di un’«aristocrazia operaia» globalizzata, nel frattempo in dissoluzione, contro i «caduti fuori», o contro i lavoratori dei settori dei bassi salari; e fin negli stessi ceti inferiori della «cultura dominante», contro i migranti. Su tutto però sono le classi medie accademiche e sub-accademiche, sotto la minaccia della caduta nei centri capitalistici, che pretendono di salvare la propria pelle e stilizzare come ideale di emancipazione generale i loro interessi specifici in quanto «capitale umano», quando nella realtà la vita degli «altri» gli è indifferente. A misura che si costituirà un contro-movimento sociale, il compito della «critica categoriale» è precisamente nell’identificare analiticamente i diversi potenziali di esclusione sociale sovrapposti in maniera complessa e affrontarli.

Ciò può avere successo soltanto se la critica riesce a trasmettere che, oltre le categorie capitalistiche, sarà facilmente possibile soddisfare le necessità della vita «per tutti». In questo contesto, il compito è rendere coscienti i contro-movimenti sociali (contando nel fatto che sorgano) dell’enorme discrepanza tra i potenziali di ricchezza materiale e l’impossibilità di continuare a trattarli nella forma capitalista. Tuttavia la riflessione teorica sulle categorie reali del capitale, forma valore e merce, plusvalore, lavoro astratto etc, e la loro modulazione politico-statale, non è presente nella coscienza delle masse. Può allora essere mobilitata l’esperienza pratica del fatto che esistono, dal punto di vista tecnico-pratico e materiale, le capacità per soddisfare le necessità materiali, sociali e culturali, ma sono paralizzate dal capitalismo, perché non può più essere soddisfatto l’assurdo fine in sé della trasformazione del «lavoro» in «più lavoro» e del «denaro» in «più denaro». Se sempre più individui diventano senza tetto, mentre contemporaneamente ci sono alloggi vuoti in massa, o se sempre più malati e bisognosi non sono adeguatamente accuditi, mentre, al tempo stesso, l’amministrazione chiude ospedali, medici e personale ospedaliero vengono messi sotto pressione o diventano «disoccupati», allora questa esperienza può essere fondamentalmente trasformata in critica radicale della forma della merce e del denaro, arricchendo l’esperienza con la riflessione teorica.

Questo approccio è corretto anche quando si invoca il cosiddetto problema «ecologico» (degrado climatico, esaurimento delle colture, erosione dei fondamenti naturali della vita, etc.). Su questo aspetto, la mediazione della «critica categoriale» deve rendere cosciente la connessione interna tra poteri distruttivi del modo di produzione capitalista della ricchezza materiale, da un lato, e la forma capitalista delle relazioni sociali, dall’altro. Non è la produzione in sé di una quantità sufficiente di alimenti e beni culturali che porta alla distruzione della «biosfera», ma la razionalità della logica della valorizzazione dell’economia d’impresa, la quale crea povertà mentre distrugge le sue stesse basi e rovina la natura. Il potere distruttivo di certe forme capitalistiche di ricchezza materiale (trasporto automobilistico individuale, industria della difesa, agro-industria disseminatrice di veleni, etc) non può essere giocato contro la socializzazione delle necessità della vita sociale. L’alternativa all’«automobilizzazione» non è l’eliminazione della mobilità in sé ma l’espansione del trasporto pubblico, sotto il controllo sociale, nella resistenza contro la privatizzazione. É particolarmente perfido responsabilizzare le persone, condannate a indegne razioni di miseria e capitalisticamente impoverite, perché «consumano troppo» distruggendo così il clima. Mentre la «catastrofe climatica» ha recentemente, in tempi di congiuntura di deficit, causato sensazione mediatica, adesso, nella crisi, gli obiettivi ufficiali della riduzione delle sostanze inquinanti sono nuovamente tagliati, perché dev’essere mantenuta a qualsiasi prezzo la forma capitalistica della produzione. É perfettamente possibile che l’amministrazione di crisi intenda sostenere più restrizioni sociali con una legittimazione «ecologica». In questa contraddizione si muove anche l’ideologia «ecologica» appoggiata da una parte delle classi medie, la quale pretende di parlare dei «limiti del capitalismo» solamente nel senso di un «limite esterno» delle risorse naturali, mentre il «limite interno» del lavoro astratto e della «valorizzazione del valore» è percepito solo in forma riduzionista («limiti della crescita») o completamente dimenticato, perché ognuno gradirebbe essere coinvolto «ecologicamente» nell’amministrazione della crisi. Dal punto di vista di un ulteriore sviluppo della critica dell’economia politica, questo «riduzionismo ecologico» è tanto criticabile quanto l’orientamento economico affermativo verso un «keynesismo di crisi».

Un altro passo nella mediazione della «critica categoriale» sarebbe la riapertura di un dibattito sulla pianificazione sociale, non più basata sul lavoro astratto, sulla forma valore e sullo Stato. Come eredità dell’epoca passata, il «socialismo» attuale è più che mai equiparato alla «nazionalizzazione», il che continua a portare solo a frasi paradossali, come «socialismo del mercato finanziario», in cui si esprime, tuttavia, il paradosso reale delle nuove condizioni di crisi. Per una vera trasformazione oltre il capitalismo, il compito è organizzare in nuovi modi il flusso sociale mondiale delle risorse materiali e sociali come tali e smetterla di rappresentarle nelle categorie, storicamente obsolete, del «valore» e della sua «sostanza lavoro». Ciò include il problema dei momenti della riproduzione sociale che mai sono apparsi nel lavoro astratto e nella valorizzazione, e storicamente furono delegati alle donne (prendersi cura dei figli, assistenza, lavoro domestico, «lavoro d’amore», etc.). Nei limiti della valorizzazione del capitale anche questo «cemento sociale» si frantuma. Una trasformazione sociale deve dunque riorganizzare questi momenti, liberarli dalla loro attribuzione sessuale e creare per loro un fondo sociale di tempo libero che da tempo è ormai possibile.

Sarebbe necessario scatenare un ampio dibattito sociale su questo, in cui far entrare molteplici esperienze e competenze, non limitandosi a un approccio strettamente teorico. La critica teorica può solo tentare di incoraggiare questo dibattito, conformemente allo sviluppo della crisi, e rendere di nuovo coscienti della questione della pianificazione sociale.

Proprio perché la «critica categoriale», nel contesto della forma capitalistica, malgrado la storica crisi di questa, non è suscettibile di trasmissione senza rotture e, nei limiti delle «forme di pensiero obiettive» (Marx), urta con la coscienza sociale, essa non può limitarsi alla argomentazione politico-economica «obiettiva» in senso borghese. Un momento essenziale della mediazione è anche la critica radicale dell’ideologia. Tutta la digestione affermativa della crisi nella coscienza è produzione di ideologia, e non solo nell’orientamento statale o nel riduzionismo ecologico. Anche le ideologie basilari moderne del nazionalismo, antisemitismo, razzismo, antiziganismo (il risentimento contro i Sinti e i Rom come «paria» della modernità) e sessismo sono fortemente recuperate e riconfigurate nella crisi. Sullo sfondo vi è sempre l’aggressiva difesa di determinate vite capitalistiche di classi in lotta concorrenziale. Centrale a questo proposito oggi è l’ideologia della «nuova classe media» di fronte ai processi di crisi, nella lotta per il potere di interpretazione e per l’egemonia. I vari elementi della produzione di ideologia formano amalgami, anche indirettamente e in modo subliminale. Il compito della «critica categoriale» è dunque analizzare i «dispositivi» modulati dall’elaborazione ideologica e penetrare profondamente il concetto di ideologia, oltre il marxismo tradizionale, allo scopo di combinare un programma di trasformazione sociale con un programma di intervento della critica dell’ideologia. L’attuale sinistra di movimento, con il suo orientamento teoricamente disarmato verso «lotte» meramente simboliche, è ben lungi da tutto questo. Per questo si osserva ovunque un’inquietante convergenza tra posizioni di «sinistra» e di «destra» nella critica riduzionista del capitalismo.


Quale ruolo può avere oggi la lotta di classe per diffondere la coscienza di classe, nel senso di Lukács?


Il paradigma tradizionale della «lotta di classe» non è più suscettibile di mobilitazione nella nuova situazione del limite interno assoluto della valorizzazione. Storicamente, la rappresentazione sindacale e politica del «proletariato» non era che la rappresentazione del «capitale variabile» autoaffermativo e quindi la rappresentazione del lavoro astratto. Si costruì qui un’opposizione meramente relativa tra principio del «lavoro», presumibilmente astorico e antropologico, e la forma della proprietà privata capitalistica concepita giuridicamente, quando in realtà lavoro astratto e proprietà privata giuridica dei mezzi di produzione rappresentano soltanto differenti determinazioni nel sistema di riferimento comune soggiacente della «valorizzazione del valore». Marx designò questo contesto soggiacente come «soggetto automatico» della società moderna feticistica, in cui tutte le posizioni sociali sono prigioniere in quanto «funzioni» della logica della valorizzazione. Non esiste qualche «principio» ontologico suscettibile di essere invocato per l’emancipazione sociale. Al contrario, il capitalismo può essere superato solo attraverso una critica concreta delle sue forme storiche basilari. La «lotta di classe» fu essenzialmente un movimento di «lotta per il riconoscimento» nel terreno delle categorie capitalistiche. Per questo l’antico movimento operaio adottò dal protestantesimo e dall’ideologia borghese dell’Illuminismo non solo l’ontologia del lavoro astratto ma anche l’ontologia della relazione capitalistica di genere, cioè delle attribuzioni storiche della «maschilità e della femminilità». Ciò che venne fuori dalla «lotta per il riconoscimento» (diritto di sciopero, libertà di associazione, libertà di riunione, diritto di voto, etc) finì sempre soltanto nella nazionalizzazione delle categorie capitalistiche non superate. Il paradigma socialista di «lotta di classe» si esaurì in questo.

Nella nuova situazione storica, il «riconoscimento» da tempo raggiunto dai salariati, come soggetti economici e cittadini statali della società feticista, diventa una catena e una trappola. Gli individui sono, nel migliore e nel peggiore dei casi, legati alla coercizione della valorizzazione. Non è solo una questione di coscienza. Anche oggettivamente, la base sociale della vecchia «lotta di classe» si disfa. Sotto le condizioni della Terza Rivoluzione Industriale, il capitale non può più organizzare eserciti «produttivi» di lavoro astratto. Una volta che il processo di individualizzazione in quanto fenomeno di crisi distrugge i filtri sociali, i soggetti socialmente atomizzati si riferiscono direttamente alla relazione di valore globale, che contemporaneamente diventa virtuale sotto la forma di credito ormai non più suscettibile di adempimento, e quindi diventa obsoleta. In apparenza sorgono una «molteplicità» di situazioni sociali diffuse che però non possono ormai più essere integrate sulla base delle categorie capitalistiche. Personale garantito e occasionale, lavoratori a termine e sotto impiegati, disoccupati con sussidio oggetto dell’amministrazione di crisi, falsi autonomi e imprenditori della miseria, etc, non rappresentano più una qualche massa omogenea di un «proletariato creatore di plusvalore». L’ideologia di movimento, durante gli anni ‘90, si limitò ad assumere affermativamente questa «molteplicità» e a riunirla, senza concettualizzarla, sotto il mantello della «moltitudine», non a superarla. Per una nuova organizzazione delle lotte sociali, l’obiettivo non è più il «riconoscimento» in quanto creatore di plusvalore, ma solo la critica e la trasformazione della stessa categoria valore e della relazione di genere che gli è associata. La base non può essere un’organizzazione capitalistica del «lavoro» opposta, che è dissolta e demoralizzata, ma solo l’autorganizzazione cosciente della critica storica concreta delle categorie dominanti, partendo dal «trattamento della contraddizione» immanente e andando al di là di esso. Non è una questione di costituzione «obiettiva» della classe come rappresentazione del «capitale variabile», ma una questione di coscienza. Non, però, qualche coscienza «idealista», in termini, per esempio, di un’«etica» della filosofia morale, ma una coscienza che si confronta con il limite storico della valorizzazione e con la caduta del livello di civilizzazione.

Su questo punto è necessario tornare ancora una volta al problema della «nuova classe media» minacciata dalla caduta. La disorganizzazione degli «eserciti del lavoro» industriale e la decadenza dell’antico movimento operaio sono andate di pari passo con l’ascesa di questa classe media qualificata nella fase di prosperità fordista. La base economica non era la produzione reale di plusvalore ma l’espansione del credito statale. L’autocoscienza sociale che l’accompagnava non era tanto nell’ontologia del «lavoro», ma molto di più nello statuto del «capitale umano» in quanto «formazione superiore». Già la nuova sinistra, a partire dal 1968, era essenzialmente un movimento della classe media, anche se continuava a ricercare, ideologicamente e astrattamente, a partire dal fondo marxista, un’inutile mediazione con l’esaurita «lotta di classe» del «proletariato». Nell’era dell’economia delle bolle finanziarie, le «nuove classi medie» sono diventate dipendenti dall’espansione del credito privato e sempre più precarizzate. E’ stato appunto in questo contesto che la «visione del mondo» della coscienza della classe media ha guadagnato una posizione dominante anche a sinistra. La ripresa della vecchia retorica della «lotta di classe», e soprattutto dei suoi derivati, per esempio nella figura della «moltitudine» post-operaista, sono tutti implicitamente (e a volte esplicitamente) formulati a partire dalla prospettiva della coscienza categorialmente affermativa della classe media. Oggi non è tanto l’ontologia del «lavoro», da tempo corrosa, che blocca la transizione del marxismo del movimento operaio verso la «critica categoriale», ma l’ideologia della classe media, ostinata con il suo «capitale umano», che si nasconde sotto la «molteplicità» degli approcci di movimento. Una volta che le classi medie sono inevitabilmente coinvolte in un grande contro-movimento sociale, la rottura con questa ideologia e di un’importanza decisiva.

Il problema dell’organizzazione della lotta sociale, che deve integrare in maniera differente la disperata «molteplicità» di situazioni oltre il paradigma della «lotta di classe», non parte teoricamente da zero. La transizione verso la «critica categoriale» si incontra negli approcci dei grandi teorici alle frontiere del marxismo tradizionale, come Lukács (e, in altra forma, Adorno). Lukács fornì le prime indicazioni nel libro pubblicato nel 1923, Storia e coscienza di classe, specialmente nel grande saggio centrale sulla «reificazione». Com’era da aspettarsi, data la situazione di allora, egli combina per la prima volta l’implicita ontologia del lavoro e la tradizionale «posizione di classe» da qui derivata, con la discussione della costituzione feticista moderna socialmente soggiacente. Lukács si lasciò dissuadere dai suoi punti di vista innovativi, considerati «idealisti» dal marxismo di partito, e più tardi tornò a una esplicita e abbastanza noiosa ontologia del lavoro astratto. Il suo lavoro del 1923 è stato utilizzato dai nuovi approcci della «critica categoriale» degli anni ‘80, specialmente sotto il punto di vista della coscienza di classe «attribuita» (zugerechnete) e del proletariato come presunto «soggetto-oggetto della storia». Ma il suo precedente saggio teorico non si riduce a questo. Una lettura rinnovata nelle attuali condizioni promuove conoscenze sorprendenti. Ciò a cui egli fa riferimento con il concetto di «reificazione» rappresenta già una critica delle forme basilari del capitalismo, per lungo tempo senza pari; da alcuni è letta come una critica anticipata del pensiero postmoderno. Decisivo è il postulato di un «divenir cosciente» (Bewußtwerden) della critica della forma merce in quanto forma generale di esistenza nel capitalismo, compresa la merce forza lavoro. Con ciò, Lukács si ricollega alla definizione di Marx delle categorie capitalistiche, come «condizioni reali di esistenza» e, contemporaneamente, «forme obiettive di pensiero», definizione che venne nascosta dal movimento operaio.

Se spogliamo questo approccio teorico dalla sua «attribuzione» a un «punto di vista» del «lavoro», molto di esso può essere assunto per una nuova «critica categoriale» sotto le condizioni di individualizzazione e di relazione del valore in decadenza. Essenziale è, in primo luogo, includere nel piano categoriale la moderna relazione di genere, ancora non approcciata da Lukács. In secondo luogo, le relativizzazioni critiche della «coscienza di classe proletaria» formulate nel saggio sulla reificazione sono oggi soprattutto relazionabili alla coscienza della classe media (anche su ciò già si incontrano approcci in questo saggio). Si pone dunque il compito di riformulare la visione di Lukács in questa situazione storica fondamentalmente differente, allo scopo di rendere fecondo quel “divenir cosciente” critico della forma merce, verso una reintegrazione della lotta sociale oltre la falsa obiettività capitalista.


Come definirebbe un concetto di rivoluzione per il tempo presente che potesse rompere con il feticismo e con una vita quotidiana totalmente subordinata alla riproduzione del capitale?


Il concetto di «rivoluzione» fu storicamente occupato dal paradigma della grande Rivoluzione Francese, dalle seguenti rivoluzioni borghesi del secolo XIX e dalle rivoluzioni della «modernizzazione in ritardo» nella periferia del mercato mondiale nel secolo XX (Russia, Cina, «Terzo Mondo»). In questo contesto, la «rivoluzione» si limitò alla forma politica della «conquista del potere» e, nel secolo XX, alla nazionalizzazione delle categorie capitalistiche. In questo senso questo concetto appartiene alla storia dell’imposizione del lavoro astratto, della logica della valorizzazione e della relazione di genere moderna. Pare, quindi, che la sua carriera sia terminata. Nel marxismo residuale e nell’ideologia del movimento, la «rivoluzione» come atto politico della sovversione non impegna più alcun ruolo. Ma stanno gettando fuori il bambino con l’acqua sporca. Una volta che la sinistra ha archiviato il concetto di rivoluzione senza attualizzarlo, essa si è limitata a ratificare la sua autoconsegna alla forma capitalista di vita, nella base sociale della classe media.

Marx ha criticato il concetto di rivoluzione limitato alla politica già nei primi scritti. Per lui, la «rivoluzione sociale» presenta una qualità differente che sopprime anche lo statalismo della forma politica, insieme con il valore e la forma merce. Così come più tardi nel caso di Lukács, questo sovvertimento, tuttavia, ancora figurava in Marx come «rivoluzione proletaria». E’ appunto questo paradigma che si mantiene nel concetto di rivoluzione ridotto alla politica. Oltre l’ontologia del lavoro, nel limite interno della valorizzazione, si pone in forma nuova e differente la questione della «rivoluzione sociale», cioè come rottura della sintesi sociale dominante nelle forme del valore e della relazione capitalista di genere. «Sintesi sociale» altro non significa che la forma specifica dei socializzazione, nel senso di una «totalità negativa», può essere superata solo con un sovvertimento dell’insieme della società.

Proprio per questo, è necessario un movimento sociale su grande scala, e ora su scala transnazionale, per raggiungere la sintesi sociale in generale. Non bastano, per esempio, occupazioni di imprese da parte del personale che, in seguito, appena si rende soggetto collettivo del capitale, continua a fare la sintesi attraverso il mercato e la concorrenza. Finora tutti questi tentativi sono falliti (come durante la grande crisi in Argentina). Non è possibile una trasformazione al livello di ogni capitale, o al livello di una riproduzione particolare, ma la questione della sintesi, e, così, della pianificazione sociale oltre la forma merce, costituisce sempre il punto di partenza (e non un qualche punto finale) della rottura pratica con il capitalismo. In questo contesto il concetto di «rivoluzione» non è semplicemente irrilevante, malgrado esso non abbia più che a vedere con l’antico paradigma «politicista». La teoria critica come «critica categoriale» deve persistere da questo punto di vista della sintesi sociale, anche contro la coscienza di movimento meramente «simbolica», che non si pone questa questione decisiva.

La sinistra di movimento post-operaista preferisce parlare oggi di Mutare il mondo senza prendere il potere (John Holloway). La sintesi sociale è sostituita con un diffuso concetto di «vita quotidiana» che ha fatto carriera già dal movimento del 1968. Ciò che molte volte si designa come «rivoluzione» culturale «della vita quotidiana» è sempre, in un modo o nell’altro, la musica di fondo del mutamento sociale; ma, ridotta a questo punto di vista, può anche trattarsi di un adattamento culturale alla dinamica capitalistica. Tali concetti del ‘68 e della sinistra postmoderna sono stati da tempo adottati dal management di crisi del capitalismo, per esempio, sotto la forma della propaganda neoliberale sull’«auto-responsabilizzazione» individuale. Il tema della «vita quotidiana» non può sostituire il vero intervento al livello di sintesi sociale; così come non può dispiegare la necessaria forza d’intervento (per esempio attraverso scioperi, blocchi, paralisi delle vie nevralgiche capitalistiche). La «questione del potere» non si limita al paradigma «politicista» del potere di Stato, ma, a maggiore ragione, si pone come questione di un «contropotere» sociale in resistenza contro l’amministrazione di crisi. In realtà, la «vita quotidiana» solo per sé non è un rifugio di «resistenza», il cui concetto in questa forma diventa vuoto. La resistenza, semmai, comincia quando gli individui si sollevano contro il loro «quotidiano», determinato dal capitalismo in tutti i pori, e si rendono in generale capaci di organizzazione.

La metafisica del quotidiano della sinistra si riferisce anche, in parte, alla continuazione del fallito movimento d’alternativa degli anni ‘80, ai tentativi di un «altro» modo di vita e di produzione nella piccola scala di «comunità» particolari, che si legittimano neo-utopicamente o pragmaticamente. Questi tentativi, per esempio, nella forma della cosiddetta «economia locale» o del movimento digitale open source, così come l’occupazione delle imprese, non possono raggiungere il livello di sintesi sociale. Come alternativa apparente a un movimento di resistenza sociale a partire dall’immanenza capitalista corrono il rischio di trasformarsi in un’«auto-amministrazione della povertà». Se lì vi appare ancora l’idea di una «critica della forma merce», sarà abbassata verso un formato in cui tale critica non sarà possibile senza perdere il suo contenuto decisivo e senza avvolgersi in contraddizioni senza uscita. Le presunte alternative rimangono legate alle relazioni contrattuali borghesi, e non solo; esse si riferiscono solo a piccoli segmenti della riproduzione, che rimane nel suo insieme determinata in modo capitalista. Perciò, i particolari «progetti di prassi», normalmente guardano a un finanziamento esterno dello Stato, sia nella forma di un «reddito di base» sia nella forma di un patrocinio autarchico. Statalismo keynesiano e ideologia d’alternativa sono appena due facce della stessa medaglia; il denominatore comune è l’orientamento diretto o indiretto verso il credito statale. Qui si esprime ancora una volta l’inconfessato dominio della coscienza della classe media, che vuole sempre lavare la pelle senza bagnarla. Le sinistre keynesiana e dell’ideologia d’alternativa devono quindi entrambe rimuovere e negare la nuova qualità della crisi, perché le loro illusioni non possono sopravvivere alla fine del sistema del credito globale e dell’economia delle bolle finanziarie. Esse si confronteranno con il vero limite della sintesi sociale dominante, al più tardi, quando la grave frana dell’economia mondiale raggiungerà anche la «vita quotidiana» nei centri capitalistici.

traduzione by lpz