mercoledì 17 giugno 2009

3. L’economia di guerra tedesca e il socialismo di Stato


3.1 Il sociologismo della “lotta di classe” e l’involucro formale borghese

L’illusione del socialismo di Stato fa la sua ricomparsa esemplare in Lenin, il quale indicò come prototipo dell’aurorale economia sovietica, lo Stato pianificato dell’Impero Tedesco con la sua economia di guerra, se solo questo fosse divenuto uno strumento al servizio di una forza sociale di natura completamente differente. E’ tuttora celebre il suo panegirico della posta tedesca come modello organizzativo per una trasformazione della società in senso socialista nelle pagine di Stato e rivoluzione, scritto nella tarda estate del 1917:

Verso il 1870 un arguto socialdemocratico tedesco considerava la posta come un modello di impresa socialista. Giustissimo. La posta è attualmente un’azienda organizzata sul modello del monopolio capitalistico di Stato. A poco a poco l’imperialismo trasforma tutti i trust in organizzazioni di questo tipo. I “semplici” lavoratori, carichi di lavoro e affamati, restano sempre sottomessi alla stessa burocrazia borghese. Ma il meccanismo della gestione sociale è già pronto. Una volta abbattuti i capitalisti, spezzata con la mano di ferro degli operai armati la resistenza di questi sfruttatori, demolita la macchina burocratica dello Stato attuale, avremo davanti a noi un meccanismo mirabilmente attrezzato dal punto di vista tecnico, sbarazzato dal “parassita”, e che i lavoratori uniti possono essi stessi benissimo far funzionare … (Lenin 1917).

Lenin, incalzato dagli eventi, fa un ulteriore passo avanti in un articolo del maggio 1918, Sull’infantilismo di sinistra e lo spirito piccolo–borghese, in cui l’obiettivo non è più quello di affrancare dal “capitalismo di Stato” questo enigmatico “meccanismo di gestione sociale dell’economia” completamente indeterminato sul piano formale, ma semplicemente quello di strumentalizzare direttamente il capitalismo di Stato come tale:


(...)

Affermazioni di questo genere caratterizzano meravigliosamente non solo Lenin e i bolscevichi ma anche il movimento operaio dell’epoca nella sua interezza (compreso quindi quello occidentale) per non parlare degli “estremisti di sinistra”, gli antagonisti di Lenin nella diatriba menzionata in precedenza. Il fondamento teorico e ideologico di questo pensiero va sempre ricercato in una concezione della socializzazione e delle formazioni sociali storiche, di stampo prettamente sociologistico. La teoria di Marx, dopo essere stata volgarizzata in modo unilaterale fino alla sua trasformazione in “marxismo”, venne derubata della sua decisiva critica formale al moderno sistema di riproduzione borghese; la critica della forma–merce – che Marx aveva portato alle sue estreme conseguenze mediante il concetto di feticismo – venne liquidata e esiliata in un Ade teorico e storico, screditata come incomprensibile o degradata a fenomeno di coscienza meramente soggettivo.
Come presunto fondamento ultimo della socialità, al posto del concetto di “forma” del sistema produttore di merce con le sue condizioni storiche, subentrò un concetto decurtato di “antagonismo di classe”; il constitutum divenne così il constituens; il fenomeno derivato delle classi sociali si trasformò in un essenza che non poteva più essere ulteriormente soggetta ad indagine. Ma in questo modo ad essere sottoposto a critica non fu più il capitale, quanto piuttosto i “capitalisti” in quanto soggetti personali all’interno di un rapporto sociale, quello basato sulla merce, in realtà totalmente privo di soggetto. Le classi, mistificate come meta–soggetti sociali, acquisirono così un carattere sorprendentemente familiare, come quello delle antiche divinità che esibivano nella loro condotta una personalità squisitamente terrena.
In questo modo una categoria sociale analitica, vale a dire la “classe operaia”, si convertì in una persona collettiva immediata con un’identità concreta in grado di “agire” in una forma quasi–storica, indipendente dalle persone empiriche reali. L’identità di classe trovò la sua legittimazione in una falsa ontologia del lavoro, concepito non come elemento e parte integrante del sistema feticistico della merce, ma come essenza eterna dell’uomo in un senso strettamente biblico, (precisamente “protestante”) che poteva subire, ma solo esteriormente, i soprusi del soggetto “sfruttatore” ossia dei capitalisti.
Il processo inverso, cioè la presunta liberazione dal rapporto capitalistico, veniva inteso solo come “esautorazione” dei capitalisti o, in casi estremi, come loro liquidazione con metodi giacobini; su questo terreno la posizione degli “estremisti di sinistra”, critici di Lenin, evidenziava un carattere ancora più borghese–giacobino: come supposta alternativa al “capitalismo di Stato” essi suggerirono candidamente lo “sterminio totale della borghesia”.
Nella comprensione dell’antico movimento operaio l’argomentazione di Lenin dovette suonare assai convincente. Se il lavoro, malgrado la determinazione storico–sociale della sua forma, si affermava come fondamento positivo di ogni “socialismo” concepibile, la stessa cosa doveva valere in ultima analisi anche per tutte le altre categorie di base del sistema produttore di merce. In Lenin (e non solo in lui) è del tutto assente l’idea che il lavoro astratto rappresenti una forma capitalistica. Invece il lavoro riemerge sempre come riflessione positiva, per quanto in una formulazione stranamente vaga, confusa e aconcettuale, in espressioni come “contabilità economica” o come “meccanismo di gestione sociale dell’economia”, in stretta connessione con l’“ultima parola della tecnica del grande capitale” (!) e la “scienza più moderna” e alla fine semplicemente come “organizzazione statale pianificata”.
Dietro queste elaborazioni concettuali si cela una concezione del tutto ingenua e sprovveduta della logica capitalistica che nel linguaggio corrente potremmo definire di stampo tecnologico–sociale. Una metafora corrente, e non solo tra i bolscevichi, paragonava la società della Rivoluzione d’ottobre a un “gigantesco laboratorio”. Il presunto socialismo appariva come un’impresa organizzativa titanica ma puramente esteriore, che doveva essere realizzata dal soggetto “giusto” al posto di quello sbagliato “aristocratico–imperialista” ma nelle stesse forme e con gli stessi mezzi. Tuttavia neanche con le migliori intenzioni si potè far nascere immediatamente questo soggetto mistificato della “classe operaia”: l’eccitazione e l’entusiasmo delle “masse lavoratrici” nei soviet e la loro disponibilità all’azione cominciò a esaurirsi nella stessa misura in cui tali masse venivano sequestrate come “braccia” per il dispendio di forza–lavoro; ma questa procedura coercitiva non solo era assolutamente inevitabile a lungo termine, dato il debole sviluppo della produttività, ma inoltre rappresentava uno stadio che doveva essere imposto alla poderosa massa inerziale della produzione contadina di sussistenza. Così il partito divenne l’incarnazione del soggetto di classe metafisico, la cui demistificazione come macchina della modernizzazione borghese sarebbe stata ideologicamente intollerabile: si spiega anche così il terrore omicida stalinista contro la vecchia guardia bolscevica (i cui esponenti, e Trotskji in particolare, avrebbero tutti potuto diventare uno Stalin). Il partito, amalgamandosi con le strutture di un’economia di guerra burocratico–statale –in parte preesistente, in parte da esso costituita – in quanto vicario della classe operaia sulla Terra poteva giustificare praticamente qualunque sua azione anche la più insensata o sanguinosamente repressiva. Il partito che “ha sempre ragione” creò così, conformemente alla propria autocoscienza, una nuova società socialista che però altro non era se non il reclutamento forzato e finalizzato al “recupero”, di una classe operaia moderna, sotto la direzione dello Stato.
Comunque sia, neppure gli scettici e i critici, socialisti o marxisti – che furono liquidati fisicamente in Unione Sovietica dall’apparato stalinista con una modalità di tipo giacobino che scimmiottava la Rivoluzione Francese –avevano da offrire una qualunque alternativa storica, né tantomeno erano in grado di afferrare concettualmente il processo sociale che si stava svolgendo sotto ai loro occhi. L’orientamento trotzkista verso la “rivoluzione proletaria in Occidente”, giustificata con l’impossibilità del “socialismo in un solo paese” specialmente nella Russia “sottosviluppata” – e sulla base dell’idea che solo in Europa sarebbero state compiutamente presenti tanto le condizioni oggettive quanto quelle soggettive per una simile rivoluzione –, era di fatto una mera illusione.
In realtà anche in Occidente lo sviluppo delle forze produttive era ben lungi dall’aver raggiunto la sua soglia critica. Le rivoluzioni occidentali e i movimenti di massa che seguirono la fine della Grande Guerra, appartenevano, come del resto la guerra stessa e la Rivoluzione d’Ottobre, alla storia dell’affermazione del sistema produttore di merce, non certo alla fase della maturazione che avrebbe portato alla propria crisi interna e al proprio superamento. In ogni caso, anche se i protagonisti di questi sviluppi erano comunque uomini moderni, costituiti dal capitalismo, e sebbene i loro conflitti fossero già marcati dalle contraddizioni del sistema produttore di merce, tuttavia tali contraddizioni erano per quel periodo insormontabili. Anche in Occidente nel corso di questi sconvolgimenti sociali si dissolsero e si volatilizzarono tutti quei residuati e scorie, strutture sociali e rapporti di dipendenza, forme giuridiche, relazioni ecc. di tipo corporativo, pre– o protocapitalistici, fissi e immutabili; tutta l’epoca delle guerre mondiali apparteneva ancora alla storia del dispiegamento globale del capitale che doveva evolversi a sistema mondiale immediato, pienamente maturo e identico a se stesso solo dopo il 1945.
A quel tempo all’ordine del giorno c’erano invece la caduta dell’Impero Tedesco e della monarchia asburgica, l’abrogazione del diritto elettorale prussiano a tre classi, l’estensione, più tardiva, del diritto di voto alle donne, anche nei paesi occidentali e non certo il superamento del sistema produttore di merce che neppure un trotzkista o un “estremista di sinistra” avrebbe mai potuto formulare teoricamente (a parte alcune tematizzazioni astratte e concettualmente oscure); proprio per questa ragione questo radicalismo apparente restò intrappolato nella mistificazione della classe operaia.
Questo stato di cose rimanda naturalmente alla fase di maturazione tutto sommato arretrata della socializzazione mondiale capitalista. Potremmo applicare al marxismo, ciò che Marx scrisse nel 1859 in Per la critica all’economia politica:


(...)

Alla fine della Prima Guerra Mondiale non era ancora giunta l’ora del superamento del sistema produttore di merce quanto piuttosto quella di una sua ulteriore avanzata. In Occidente non esistevano da nessuna parte forze produttive che avrebbero reso possibile l’abolizione della classe operaia cioè uno sganciamento della riproduzione sociale dal sistema fondato sul dispendio astratto e massivo di forza–lavoro. L’unica alternativa sarebbe stata solo il regresso a forme di tipo agrario, caratterizzate dalla povertà di bisogni e da una brutalità premoderna. Pertanto gli stessi critici radicali di sinistra furono incapaci di immaginare una società rivoluzionaria che non si riducesse a un “autogoverno della classe operaia” radicale e ipergiacobino: una contraddizione intrinseca e un’impossibilità logica poiché la facoltà da parte della società di prendere decisioni autonome sui valori d’uso o sul contenuto dei bisogni e la sua esistenza come meccanismo basato sulla forza–lavoro, sono due istanze che si escludono reciprocamente.
La celebre formula di Lenin, secondo cui il comunismo non sarebbe altro se non “il potere dei soviet più l’elettrificazione” oltre a rispecchiare una concezione esteriore e tecnologica dell’emancipazione sociale, manifesta anche una contraddizione a quel tempo irresolubile: i “lavoratori” come tali non avevano alcuna chance di “governare” perché per questo scopo non disponevano di nessuna quota di tempo sociale; per potere “governare” bisognerebbe prima cessare di “lavorare”; ma se questo fosse possibile allora non vi sarebbe più la necessità di alcun “governo” che diverrebbe totalmente superfluo in senso sociale. Il “governo della classe operaia”, quale che fosse il suo contrassegno ideologico, poteva sempre e soltanto trasformarsi in una dittatura della modernizzazione, borghese e giacobina. Per un’ironia della storia e in contrasto con tutte le leggende dell’estremismo di sinistra, la rivoluzione proletaria non avrebbe mai potuto verificarsi in Occidente poiché lo sviluppo occidentale si era completato già da tempo e quindi non c’era affatto la necessità di una rivoluzione per approdare allo stadio successivo della modernizzazione borghese.
Comunisti (“leninisti”) e socialdemocratici occidentali, i fratelli in armi del vecchio movimento operaio, non solo erano accomunati dalla medesima comprensione di fondo della società, imprigionata nel suo “carattere di società del lavoro”, ma erano identici anche nella loro funzione storica di forze della modernizzazione borghese di quella stessa società. Ma mentre in Occidente per questo compito era sufficiente la socialdemocrazia e la sua politica, lo stato di relativa arretratezza della Russia esigeva misure ben più radicali. Quello scisma così come l’odierna, patetica “riunificazione” del “movimento socialdemocratico” nella sua interezza, finalmente giunto ad appropriarsi della sua vera identità, si spiegano solo con il fatto che tale paradigma è divenuto storicamente privo di oggetto poiché la storia della modernizzazione borghese è entrata nella sua fase di crisi.
In un certo senso avevano ragione i socialdemocratici menscevichi quando alludevano al carattere “oggettivamente borghese” della rivoluzione in atto in Russia – e certo più di quanto essi stessi non ne avessero il sentore – ma solamente sul piano logico, non su quello storico e empirico. In Russia l’onere irrinunciabile della modernizzazione borghese, per così dire, non poteva essere sostenuto dal suo portatore più confacente, ovvero la “borghesia liberale” nella terminologia sociologica – che nella storia della rivoluzione russa giocò solo un ruolo marginale. In quelle condizioni soltanto un partito radicale dei lavoratori, ferocemente ostile nei confronti del capitalismo occidentale fu in grado di far nascere dal nulla uno sviluppo capitalistico di recupero.
Così i bolscevichi pur avendo ragione nella “prassi”, dovettero autoingannarsi circa il reale contenuto della loro rivoluzione e lo fecero per mezzo dell’illusione leninista del “primato della politica”. La volontà politica del partito doveva sostituire un superamento del lavoro astratto, impossibile nella pratica. In questo modo l’identità interna di “capitale” e “lavoro” cioè l’intercambiabilità dei loro portatori sociali e istituzionali, vale a dire le “maschere di carattere” (Marx) del sistema produttore di merce che si confrontano solo alla superficie del mercato, risultò sistematicamente occultata. Dunque il comunismo fu solo l’ideologia legittimatoria “proletaria” di una modernizzazione di recupero borghese forzata.
In effetti gli agiografi di Lenin, di qualsivoglia tendenza, disconoscono l’essenza storica della Rivoluzione d’Ottobre in quanto cadono a loro volta vittima dell’illusione leninista e proiettano alternative nel passato come se dipendessero semplicemente dalla deliberazione “giusta” o “sbagliata” del soggetto agente. La liberazione dalle leggi coercitive della forma–merce cioè il superamento di un condizionamento cieco ed esteriore rispetto ai soggetti risulta a sua volta sottoposta a tale condizionamento. Fino ad oggi questo problema è stato formulato scorrettamente dai “perfezionatori della storia” di sinistra e democratico–radicali. Chi reclama in modo astratto “spontaneità”, “autogestione”, “democrazia di base” ecc. nel senso di un Illuminismo astorico, senza sfiorare la struttura di base feticistica del sistema produttore di merce, intende semplicemente contrapporre gli ideali celesti della borghesia, libertà, uguaglianza e fraternità, alla realtà borghese. Questo evergreen dell’illusione borghese concernente il soggetto non ha perso nulla della sua magia a partire dai giorni della Rivoluzione Francese e perciò ci si ostina a tollerarla seppur controvoglia anche ai giorni nostri.

3.2 Il problema dell’orientalismo

Non molto migliori di quei tardo–illuministi radicali o borghesi di sinistra che rimproveravano stolidamente al regime modernizzatore bolscevico di non avere realizzato l’ideale borghese esattamente come non l’aveva fatto la borghesia stessa, si rivelano quei critici che, in modo complementare, tentano di ricondurre lo statalismo bolscevico alla “tradizione asiatica”, agli elementi asiatici, dispotici, dello zarismo e della sua eredità sociale (Dutschke 1974, Bahro 1977 et al.). Ma per questa via le radici e gli elementi statalisti e dispotici, propri del pensiero democratico e illuminista e dei suoi fondamenti sociali, vengono rimossi e occultati e le tracce storiche del sistema occidentale produttore di merce vengono smarrite, anche se forse involontariamente.
Solo un pensiero che si alimenta di analogie superficiali potrebbe confondere il dispotismo asiatico con un regime modernizzatore all’insegna dell’economia di guerra, preso in prestito dall’Occidente e che non si ispirava affatto a Ivan il Terribile bensì alla posta tedesca. Naturalmente è fin troppo semplice racchiudere tutti i fenomeni di dispotismo apparsi nel corso della storia universale, all’interno di un unico sovraconcetto formale e vuoto; in questo modo si potrebbe tranquillamente istituire un paragone tra il bolscevismo e l’impero dei Faraoni, come ha fatto ad esempio l’anarchismo nobile, critico delle forze produttive, che fa da sfondo ideologico al Mito della macchina di Lewis Mumford (Mumford 1974). Ma così diventa impossibile comprendere le singole e reali formazioni sociali, nella storia concreta della loro costituzione e delle condizioni in cui esse nacquero. Le basi sociali del dispotismo asiatico sono del tutto differenti da quelle del sistema produttore di merce della modernità e assolutamente incompatibili con esso. La produzione agraria di sussistenza e il suo “sfruttamento” da parte di un popolo egemone, dispoticamente centralizzato, le culture dell’irrigazione con le loro economie naturali, le “civiltà idrauliche” (Wittfogel 1957) con una burocrazia amministrativa dominata dispoticamente, non presentano come nesso sociale di base la merce e il denaro. Invece lo statalismo moderno, pur manifestando somiglianze formali con il dispotismo orientale in determinati stadi di sviluppo del sistema produttore di merce, è un elemento costitutivo dell’individuo astrattamente libero, plasmato sulla forma–merce, la cui reale eteronomia interna non dipende dall’”arbitrio della burocrazia” ma dalle leggi coercitive e prive di soggetto della forma–merce e del denaro.
Dietro a fenomeni quali la ricomparsa dello statalismo dell’epoca mercantilista e della rivoluzione protomoderna nelle economie di guerra dell’Impero tedesco e degli altri Stati imperialisti del sistema produttore di merce, nonché nelle economie belliche del periodo della Seconda Guerra Mondiale – naturalmente in una forma differente e a un livello di sviluppo più avanzato – la “burocrazia capitalista” e il “mondo amministrato”, deplorati tanto dai critici di sinistra quanto dai liberali come un contrassegno strutturale negativo, non si cela affatto un burocratismo autoctono, come eredità del dispotismo, ma solo la conseguenza della libertà democratica stessa vale a dire l’amministrazione dell’automovimento del denaro, con il suo carattere di costrizione oggettiva, e l’esecuzione delle sentenze che vengono emesse (magari con rammarico) da questa normatività della “seconda natura”.
Lo statalismo dispotico della società sovietica aurorale si scagliava proprio contro i fondamenti sociali e economici del dispotismo orientale, retaggio dell’impero zarista: le affermazioni di Lenin, ripetute ad ogni piè sospinto, secondo cui era necessario apprendere dalla cultura, dalla scienza, dall’amministrazione borghese dell’Occidente per assumerne le forme, si conciliano alla perfezione non solo con la funzione modernizzatrice borghese della rivoluzione d’Ottobre ma anche con le sue forme stataliste. Analogamente a quanto fece lo statalismo protomoderno in Occidente nei confronti delle scorie della società feudale, i residui dell’orientalismo vennero spazzati via e rimodellati mediante gli strumenti statalisti della socializzazione moderna plasmata sulla forma–merce:

Questa affermazione di Lenin ne L’infantilismo di sinistra e lo spirito piccolo–borghese riflette, molto più di quanto non lo voglia veramente, l’essenza autentica della Rivoluzione d’Ottobre. Se prima della Rivoluzione Francese, i principi e i monarchi assoluti avevano accelerato il processo di distruzione del modo di produzione feudale e di esautorazione della nobiltà, uno sviluppo di cui alla fine essi stessi sarebbero caduti vittima, anche gli zar “modernizzatori”, liquidando e decapitando i boiardi, avevano già messo in moto dinamiche che andavano proprio nella direzione opposta all’orientalismo; la Rivoluzione Francese si impossessò dello statalismo mercantilista, guidandolo verso ulteriori sviluppi e allo stesso modo anche la Rivoluzione d’Ottobre assunse elementi preesistenti, la cui origine non era certo il dispotismo orientale, bensì lo statalismo protomoderno, che aveva come obiettivo l’espansione della produzione di merce, già abbozzata nei progetti di industrializzazione dell’epoca zarista. Solo un pensiero intrappolato nell’orizzonte delle “classi” e nel sociologismo, non riesce a scorgere questa identità nel processo delle forme della modernità, che si dispiega attraverso differenti stadi di sviluppo, “sistemi di dominio”, forme statali e “lotte di classe”.
Il riferimento al dispotismo orientale non è altro che un sotterfugio volto a disperdere le vestigia sanguinose della democrazia occidentale. La violenza eccezionale della modernizzazione borghese sovietica si spiega anche col fatto che essa si condensò in un intervallo di tempo estremamente ristretto; un’epoca bisecolare: mercantilismo e Rivoluzione Francese, processo di industrializzazione e economia di guerra imperialista in un tutt’uno. Non c’è da meravigliarsi del fatto che questa società fosse capillarmente militarizzata e che avesse idealizzato in modo strumentale non solo il “capitalismo di Stato” dell’economia di guerra tedesca ma anche le virtù militari prussiane – disciplina e obbedienza – sotto le mentite spoglie di un’ideologia legittimatoria “proletaria” solo in apparenza contraddittoria.


3.3 Il carattere capitalista dell’”accumulazione originaria socialista”
L’introduzione temporanea della pena di morte durante il regime stalinista per chi arrivava in ritardo sul lavoro, allo scopo di accelerare l’addestramento alla disciplina di fabbrica delle masse contadine russe che ne erano digiune, fu solo la prosecuzione coerente della “militarizzazione dell’economia” trotzkista del periodo della guerra civile nonché un riflesso del brutale processo modernizzatore volto all’accumulazione originaria di capitale che Marx aveva descritto con le stesse modalità per la modernizzazione inglese. I tentativi di legittimazione, incredibilmente contorti e impacciati, con cui anche i presunti marxisti critici (tanto in Unione Sovietica quanto in Occidente) cercavano di giustificare questa accumulazione di lavoro morto, messa in moto spasmodicamente, come se si trattasse davvero di un’alternativa “socialista”, risultano ai nostri occhi impressionanti e grotteschi.
Naturalmente la “riuscita” andava addebitata solo al fatto che la trascendenza post-borghese non venne riferita alle forme di base della riproduzione sociale ma alla comparsa sulla scena di un “proletariato” mistificato. Già Preobrazenskji, in seguito condannato a morte e giustiziato come “trotzkista”, aveva coniato a quel tempo l’espressione “accumulazione originaria socialista” del tutto incongrua sul piano logico (Preobrazenskji 1926).
Ancora molti anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale tutte le mostruose forme di repressione messe in atto nel corso di questa accumulazione originaria di capitale vennero giustificate, persino dai marxisti occidentali dissidenti, nel nome del proletariato metafisico contro quello empirico:

(...)


Questa osservazione del comunista tedesco Heinrich Brandler (presidente del KPD all’inizio degli anni ’20, espulso come oppositore qualche anno più tardi), come quelle di altri, dimostra come il pensiero del movimento operaio, irretito nel feticcio del capitale, si inserisse anche in Occidente nel solco della tradizione statalista borghese, a partire dall’epoca protomoderna. Per questi spiriti il “socialismo” coincideva in tutto e per tutto con il “buono Stato” collettivista di Fichte. Ma si ebbe così l’inversione della critica marxiana dell’economia politica. In questo clima ideologico radicato nella tradizione – che in Germania subì particolarmente l’influenza di Lassalle – l’ethos protestante, affermatosi con la forza, poté essere celebrato come ideale futuribile mentre qualsiasi misura terroristica al servizio dell’accumulazione originaria in Unione Sovietica, potè essere difesa come presunta necessità anticapitalistica.
I problemi della modernizzazione capitalistica borghese vennero semplicemente ridefiniti come “problemi del socialismo reale”, fino al crollo odierno di questa illusione storica. Letta correttamente e spogliata da ogni mistificazione ideologica, la missione imprescindibile dell’Unione Sovietica venne formulata in modo chiaro e inequivocabile da Stalin nel famigerato manuale Storia del PCUS (B):


(...)

Se mettessimo tra parentesi l’“edificazione del socialismo” e parlassimo invece di una costruzione tardiva del capitalismo, allora Stalin avrebbe perfettamente ragione. Perlomeno una parte delle risorse per l’accumulazione storica originaria nell’Europa Occidentale venne ottenuta grazie all’espansione coloniale a partire dal XVI° secolo (si pensi solo all’immane quantità di oro sottratto al Sudamerica). Ma di sicuro all’Unione Sovietica questa via era preclusa. Dunque l’irrinunciabile capitale monetario poteva essere reperito esclusivamente all’interno del paese; ma questo significava che il proprio “materiale umano” doveva essere spremuto senza misericordia e trasformato rigorosamente in produttore di ricchezza astratta, di denaro e di plusvalore.
Ad intensificare la pressione dell’accumulazione interna non fu solo la carenza di risorse provenienti dall’esterno ma anche il carattere “di recupero” dell’intero processo che esigeva risorse iniziali più ingenti rispetto a quelle dell’accumulazione storica originaria dell’Occidente. Va da sé che, in questa peculiare costellazione, lo statalismo giocò un ruolo assai più rilevante di quello che ebbe a suo tempo in Occidente. Lo “Stato razionale”, che gli osservatori borghesi avevano scambiato per un elemento del socialismo ma che era stato teorizzato molti anni prima da Fichte, doveva divenire realtà. Anche in questo caso le parole di Stalin sono inequivocabili:

(...)


Stalin, con tutta la sua innocenza e la sua ingenuità teorica, descrive in questo passo la logica di accumulazione del sistema produttore di merce che produce “guadagni” astratti, incarnati nel denaro, indipendenti dai bisogni e dalle qualità sensibili. “Poco denaro” viene trasformato in “più denaro” attraverso il suo stesso automovimento, mediato dal processo di utilizzazione in forma aziendale, ma poiché tutto questo avviene sotto la regia dello Stato (dopo l’espropriazione della vecchia “classe parassitaria” dei “capitalisti”) allora non si tratterebbe più di capitalismo. Il “capitalismo di Stato”, definito da Lenin in modo concettualmente confuso e che il “socialismo” aveva imprecisamente delimitato, si confonde con il concetto di socialismo del vecchio movimento operaio nell’esistenza reale di un regime statalista di accumulazione.

3.4 Il congelamento dello statalismo e la militarizzazione della società
Nelle mutate condizioni di partenza degli inizi del XX° secolo, lo statalismo modernizzatore bolscevico dovette differenziarsi in modo sostanziale da tutti i fenomeni ad esso analoghi che si erano susseguiti nella storia dell’Europa Occidentale e anzitutto in un punto: il ciclo statalista non poteva più cedere il passo a un nuovo ciclo monetarista; nell’Unione Sovietica il movimento oscillatorio del processo contraddittorio della modernità borghese, che abbiamo abbozzato precedentemente, finì col bloccarsi. Il carattere peculiare, di “recupero”, di questo processo fondamentale del capitalismo esigeva un regime che fosse più assolutista dell’assolutismo e un’economia di guerra che più di guerra non si può. L’ideologia “protestante” fondata sull’ethos del lavoro, la militarizzazione della società e il comando statale sull’economia nella forma del “mercato pianificato” si pietrificarono; lo strato di vernice deposto sopra la riproduzione sociale si disseccò e si trasformò in un sudario tale da rendere impossibile ogni sviluppo ulteriore a lungo termine.
L’epoca della nascita e dell’ascesa a potenza mondiale dell’Unione Sovietica fu, anche in Occidente, un periodo di fulgore per lo statalismo: le economie di guerra dei due conflitti mondiali (che erano state il modello della “nuova economia” bolscevica), gli interventi statali, senza precedenti, nella “normale” riproduzione capitalistica durante la crisi economica mondiale, l’economia pianificata del fascismo tedesco negli anni ’30, la marcia trionfale del keynesismo nella dottrina economica ufficiale e la costituzione ideologica del paradigma dello Stato Sociale, fecero pensare ai contemporanei che lo statalismo particolarmente rigoroso e conseguente dell’Unione Sovietica fosse solo la punta di lancia di un processo universale e decisivo della società mondiale.
Comunque sia, nella storia della modernità, la tendenza statalista, a prescindere dal suo segno sociale e ideologico, non venne mai concepita come parte integrante del processo capitalistico ma sempre come il suo polo antagonista o in qualche caso come un fattore in grado di operarne il superamento. A quell’epoca sembrava essere ormai giunto il momento opportuno per questo superamento, anche agli occhi di coloro che non si dimostravano certo entusiasti di uno sviluppo di questo genere. Mentre tutti i marxisti ortodossi, da Hilferding a Lenin, a dispetto del loro scisma politico, vedevano all’unanimità nella tendenza statalista la “preparazione immediata del socialismo”, i critici della burocratizzazione e del “totalitarismo”, come Horkheimer e Adorno, giudicavano questo sviluppo un “cattivo superamento delle contraddizioni capitalistiche” sul terreno del capitalismo stesso. Tuttavia lo “Stato autoritario” totale (Horkheimer 1972) sembrava essere la tendenza generale in cui la modernità nel suo complesso era destinata a cristallizzarsi.
Ma questa visione, da un lato restava abbacinata dall’immediatezza del fenomeno storico mentre dall’altro risentiva, positivamente o negativamente, dell’influsso della tradizione della riflessione borghese immanente, a partire dallo “Stato commerciale chiuso” di Fichte. In realtà lo statalismo non avrebbe mai potuto essere l’ultima parola della modernità; anche nel XX° secolo esso rimase un mero stadio di transizione nel processo delle contraddizioni capitalistiche, insuperabili sulla base dei suoi stessi fondamenti. Di fatto l’economia di guerra e gli altri fenomeni dello statalismo moderno non avrebbero mai potuto attecchire in modo così profondo in Occidente come fecero in Unione Sovietica. In Occidente l’autonomia dei processi di mercato non fu mai completamente sottomessa al comando statale, il rapporto tra mercato e Stato non fu mai totalmente congelato. Già nel periodo tra le due guerre l’interventismo statale si allentò nuovamente e il paradigma keynesiano concepì espressamente lo Stato come mero ausilio regolativo del mercato, non certo come il suo invasivo soggetto di comando.
Era prevedibile che in Occidente il riconoscimento del denaro, ormai una consuetudine, e della sua struttura di automovimento conducesse a una nuova svolta. Dopo la Seconda Guerra Mondiale iniziò l’ascesa del paradigma monetarista, nel corso di diverse tappe, dal punto di vista della teoria economica un lungo roll back del neoliberalismo. A partire da Ludwig Erhard, assurto con la sua “economia sociale di mercato” a figura simbolica del “miracolo economico” fondato sul mercato e sulla concorrenza, per arrivare alla filosofia di crisi, militante e apertamente antisociale, del monetarismo dei giorni nostri, plasmato sulle dottrine e sulle pratiche sociopolitiche del thatcherismo e della reaganomics, la tendenza statalista persino quella di matrice puramente keynesiana, divenne sempre più fragile e impotente.
La nuova svolta monetarista risulta però del tutto incapace di superare le contraddizioni interne del capitale nel suo movimento globale, che spingono verso la crisi, esattamente come lo fu in passato lo “Stato autoritario”. Questa nuova svolta nel processo della modernità borghese rappresenta proprio una reazione ai nuovi fenomeni di crisi che lo statalismo in fase regressiva non fu più in grado di tenere a bada; ma nella misura in cui la nuova crisi mondiale si aggraverà e la tendenza monetarista dovrà inevitabilmente mostrare la sua specifica inadeguatezza nel dominare la situazione, essa si esaurirà originando nel contempo una riscossa statalista. Mano a mano che i limiti assoluti dell’astratta società del lavoro moderna si approssimano, sia sul piano economico che su quello ecologico, questo movimento oscillatorio si farà sempre più rapido e disperato e di conseguenza le onde di statalismo e monetarismo diverranno sempre più effimere.
Ma proprio questa flessibilità discontinua nelle forme di reazione sociale, questa capacità di cambiare posizione nel processo insanabile della contraddizione capitalista permette di rimandare la fine, di prolungare la vita del capitale e produrre un decorso della crisi con elementi di controllo temporaneo. Tuttavia il capitale, soggiogato in modo solo esteriore dalle economie di guerra pietrificate del socialismo reale, non può contare su questa possibilità. La realizzazione dello “Stato razionale” borghese mercantilista e l’economia di guerra perpetua dovevano trasformarsi da macchine per lo sviluppo “di recupero” in una catasta di rottami, incapace di reagire alla stagnazione. La crisi delle società basate sul dispendio di lavoro astratto si abbatte spietatamente e in modo ancor più veemente, sulle quelle parti del sistema mondiale produttore di merce, inerti e congelate nel loro statalismo.
Il tracollo ha assunto una forma ancora più tragica nella periferia occidentale dell’Unione Sovietica e in particolare nella regione orientale della Germania, poiché in queste regioni la statalizzazione totale del capitale non poteva neppure invocare aprioristicamente la relativa razionalità storica dello sviluppo tardivo verso una moderna società borghese; perlomeno la Germania e la Cecoslovacchia (ma in misura minore anche l’Ungheria e la Polonia) avevano già raggiunto in precedenza, in tutto o in parte, questo stadio e comunque a un livello sufficiente perché il processo di modernizzazione capitalistica potesse continuare in queste regioni sulla base dei propri presupposti. L’annessione forzata di queste società nella sfera dello statalismo sovietico fu fin dal principio un processo storicamente reazionario e controproducente: ne fu eloquente testimonianza la lunga sequela di rivolte popolari e di movimenti di massa a partire dagli anni ’50.8
Specialmente nella RDT questo statalismo d’importazione, neomercantilista e all’insegna dell’economia di guerra, poteva appoggiarsi a un’indubbia tradizione autoctona. Poiché la società tedesca, nel quadro dello sviluppo occidentale, aveva dovuto, in una certa misura, “recuperare terreno” nei confronti di altre società borghesi moderne, in Germania l’elemento statalista del capitale si era costituito in una forma molto più coriacea. Non a caso l’economia di guerra dell’Impero Tedesco fu la più esemplare di tutte, finendo con l’attirarsi le simpatie dei bolscevichi, così come non fu casuale il fatto che, tra le economie dei paesi occidentali, l’economia pianificata tedesca dell’epoca fascista fu quella che più si approssimò al “mercato pianificato” dello “Stato razionale” di Fichte. In Germania il regime di stampo bolscevico, istituito con la forza, propaggine del processo di socializzazione borghese “di recupero”, si imbattè nelle tracce interne, seppur sbiadite, di una tradizione affine di stampo protomoderno.
Per una clamorosa ironia della storia, questo regime “tipicamente tedesco” di ottusi burocrati del lavoro, instaurato dall’esterno, al soldo di una potenza protettrice e scomodamente assiso sopra le baionette, potè fare riferimento ad elementi, tradizioni e strutture di pensiero affini nella propria società solo mobilitando a proprio vantaggio, ad onta di una retorica rivoluzionaria e progressista legnosa, inverosimile e meccanicamente ripetuta, tutti gli aspetti reazionari, prussiani, imperiali (e in taluni punti anche fascisti) del suo passato: il passo dell’oca della Nationale Volksarmee simboleggiava qualcosa di più di un mero retaggio militare.
Qui lo statalismo bolscevico e quello prussiano, due creature del medesimo sviluppo capitalistico “di recupero” anche se nate in epoche differenti, in grado di insinuarsi capillarmente fin nelle pieghe più recondite della società, si fusero in un conglomerato particolarmente nauseante. Sorgeva così una mistura di poste tedesche, accampamento permanente di boy–scouts dalla culla alla tomba ed economia di comando militarizzata. Se l’economia dell’URSS fu più militarizzata di un’autentica economia di guerra, la RDT fu più sovietica dei sovietici e quindi più prussiana della Prussia. Nella RDT, economia al passo dell’oca e socialismo da caserma diedero vita a un’aberrazione nel corso dell’evoluzione della modernizzazione capitalistica che i biologi definirebbero forse come “incubo darwiniano”.
La prospettiva di una riunificazione delle due Germanie si rivela un’impresa ancora più spaventosa, non solo perché potrebbe ridestarsi un superstatalismo nazionale ma soprattutto perchè le due parti non sono più compatibili l’una con l’altra e quindi la loro fusione, alla luce della distanza storica tra i loro stadi attuali, potrà assumere solo la forma della crisi. La pietrificata economia capitalistica di guerra del 1916, con le sue strutture fossilizzate dell’epoca guglielmina, si scontra con una società del mercato mondiale tardo–capitalistica e monadizzata. Due forme antagoniste della crisi del sistema produttore di merce entrano in collisione tra loro. Questo processo andrebbe definito più appropriatamente come un incidente storico nella fase terminale della’epoca moderna invece che come un matrimonio sfarzoso alle soglie di una nuova epoca di progresso.



Note
1. I bolscevichi (e Lenin in modo particolare) non solo misero l’accento sul loro carattere borghese–giacobino (che ovviamente implicava l’attribuzione di un carattere girondino ai loro avversari menscevichi) ma lo rivendicarono sempre con fierezza. Anche se per essi si trattava semplicemente di un lusinghiero paragone storico, poiché alla loro rivoluzione competeva un “contenuto di classe completamente diverso”, questo fatto rappresenta solo la riproduzione ironica della loro illusione su di un meta–livello. Il concetto di “avversario”, decurtato in senso personalistico e sociologistico, che fece apparire logico ai bolscevichi tagliare teste per risolvere i problemi, decifra la loro forma di giacobinismo come la riedizione di una rivoluzione essenzialmente borghese nelle condizioni degli albori del XX° secolo.
2. Basta dare un’occhiata al catalogo sterminato delle opere di Lenin per concludere che non vi si trova neppure un accenno di tematizzazione del concetto di valore economico e della critica marxiana del feticismo; il fatto che lo stesso marxismo occidentale sia rimasto vittima di questa ingenuità teorica fino ai giorni nostri, se si escludono pochi tentativi oscuri, “isolati” e che non hanno mai dato veramente frutto, dimostra la sua dipendenza dalle condizioni storiche.
3. Nel frattempo questa opzione viene ritenuta seriamente presentabile e degna di essere discussa nei salotti buoni, da parte dei “critici delle forze produttive” ispirati al fondamentalismo ecologista, naturalmente come produzione ideologica da quattro soldi. L’unica spiegazione possibile va ricercata nell’enorme distanza storica che ci separa da questi rapporti, che quindi ci appaiono oggi come avvolti da una luce mistica. Il movimento operaio e i bolscevichi del 1917, che avevano ancora tali rapporti davanti agli occhi, non potevano – e a buon diritto – sprecare un solo pensiero per questa opzione demenziale, reazionaria e profondamente antiemancipatoria.
4. Al momento questa riunificazione socialdemocratica ha le sembianze di un umiliante “ritorno del figliol prodigo” comunista–leninista: dappertutto nell’Europa Orientale le stelle rosse, gli emblemi con la falce e il martello ecc. vengono gettati alle ortiche e i partiti del socialismo da caserma assumono in fretta e furia la denominazione di “socialisti” o di “socialdemocratici”; il caso più grottesco è quello della SED (Partito socialista unitario tedesco), frutto storico del connubio forzato tra SPD (socialdemocratici) e KPD (comunisti) e che come PDS (Partito del socialismo democratico) desidererebbe convolare a nozze amorose, mediante un salto mortale ideologico previo. Questo spettro si dileguerà mano a mano che, anche in Occidente, tanto la funzione modernizzatrice quanto la propaganda di integrazione sociale della socialdemocrazia entreranno nella loro crisi finale. Ad esempio mentre molti ingenui ex–leninisti ripuliti considerano il “modello svedese” come una prospettiva, questo “modello” nella sua madrepatria sta agonizzando come un malato terminale.
5. Questo atteggiamento nei riguardi della storia che si traduce in un rimprovero nei confronti del passato in cui, per ragioni misteriose, si fece in malo modo ciò che si sarebbe potuto fare assai meglio, è un tratto tipico del pensiero illuminista proprio come la valutazione del passato sulla scorta di principi razionali astratti la cui costituzione storica non diviene mai oggetto di riflessione. Questo modo di pensare presuppone sempre un soggetto borghese, proiettato a ritroso negli accadimenti storici, perlomeno limitatamente all’età moderna, senza badare al fatto che proprio la modernità nel suo complesso rappresenta la storia della costituzione di questa forma di soggettività.
6. Anche Wittfogel tenta di trasformare la sua analisi delle “civiltà idrauliche” del dispotismo orientale in una critica del bolscevismo e della società sovietica; ma la sua impostazione risulta inadeguata esattamente come tutte le altre in quanto anch’essa prende le mosse dalle stesse indiscusse premesse, occidentali e democratiche, del sistema produttore di merce.
7. – Accumulazione di che? – varrebbe subito la pena di chiedersi. Ma di capitale naturalmente! E senza che per questa ragione, almeno in apparenza, i marxisti abbiano patito qualche dolore di stomaco. Il carattere nonsensical di un’espressione quale “accumulazione originaria socialista di capitale” si può spiegare solo così: il “capitale”, cioè la forma feticistica e oggettivata nel processo di ricambio con la natura, viene considerato come qualcosa di neutrale e non specifico di una determinata formazione sociale, cui possono fare riferimento tanto i “capitalisti” quanto il “proletariato”, di volta in volta in maniera contrapposta, quantomeno in via ipotetica.
8. Anche sotto questo punto di vista il marxismo occidentale – critico ma solo in apparenza –, non ha prodotto, almeno nella maggior parte dei casi, nient’altro che apologetica vedi ad esempio la sterile enfatizzazione dell’”antifascismo” che avrebbe contraddistinto ordinamenti sociali repressivi e regimi statalisti autoritari, la cui superficialità si palesa oggi finalmente in tutta la sua ignominia. Si trattava generalmente di un “antifascismo” solo nominale e ormai insulso dopo la Seconda Guerra mondiale, ma che doveva fungere da contenitore aconcettuale per tutta una serie di fenomeni e di sviluppi incompresi e rimossi.