mercoledì 17 giugno 2009

2. Statalismo e monetarismo nel processo storico della modernità


2.1 L’invenzione del sistema produttore di merci da parte dello Stato
Ad un’analisi superficiale, la differenza sistemica che dovrebbe identificare la natura non capitalistica del socialismo reale, ormai moribondo, sembrerebbe consistere nella sua struttura di comando statalista: le funzioni della produzione di merce dovevano inchinarsi a decisioni preliminari di carattere politico. Tuttavia agli albori della modernità anche in Occidente si costituirono regimi statalisti di transizione, che assunsero tanto la forma dell’assolutismo mercantilista quanto quella del regime della Rivoluzione Francese che, per un’ironia del destino, nacque proprio dal rovesciamento di una monarchia assoluta.
Lo Stato dell’assolutismo illuminato, il Comitato di Salute Pubblica di Robespierre e il regime dell’impero sintetico bonapartista si differenziavano solo per sfumature sotto il profilo della loro funzione di modernizzazione protocapitalistica. Il fondamento comune a tutte le fazioni, le idee e le forze che a quel tempo si davano battaglia, va individuato nel ruolo peculiare e nell’importanza sociale dello statalismo tra il XVII° e la prima fase del XIX° secolo; tale ruolo si distingue nettamente da quello dello Stato regolativo e sociale, keynesiano e postkeynesiano, del XX° secolo, seppure in presenza di punti di contatto, legami e similitudini ideologiche.
L’odierno Stato keynesiano, basato sul welfare e sullo sviluppo e caratterizzato dalla democrazia di massa, si fonda su di una struttura di socializzazione capitalistica preformata e estremamente differenziata. Ma per lo statalismo mercantilista dell’epoca protocapitalista, questo stadio era ancora a tutto a venire. Esso doveva anzitutto regolare i conti con i prodotti di decomposizione corporativi del feudalesimo cioè con rapporti di produzione la cui struttura era in gran parte quella tipica delle civiltà agrarie.
Dato il grado infimo di penetrazione della socializzazione capitalistica, questo statalismo mercantilista non poteva assolutamente intervenire con efficacia nella riproduzione sociale come avrebbe fatto in seguito lo Stato di massa del tardo capitalismo, straordinariamente organizzato e in grado di infiltrarsi, con il braccio delle sue istituzioni, fin nei pori della società. Ma proprio per questa ragione esso dovette scagliarsi contro la società che si trovò di fronte con la più accesa militanza, la più brutale violenza repressiva e le pretese ideologiche più rigide. Solo allorché la società capitalistica riuscì ad imporsi e ad agire realmente secondo i propri presupposti, iniziò a valere quello che Marx aveva identificato come il contrassegno specifico di questa formazione sociale:

(…)

Analogamente a quanto avvenne durante i torbidi primordi del mercantilismo, la pretesa esterna dello Stato, da addebitare alla fragilità del processo interno di socializzazione, si ripresenta ancora una volta nelle formazioni del socialismo reale che palesa in questo modo la sua natura di regime modernizzatore protocapitalistico, buono per società borghesi arretrate. Questo fatto si rende evidente nei numerosi fenomeni venuti alla luce grazie alla glasnost e che, dal punto di vista occidentale, rispecchiano debolezze antidiluviane nella capacità di intervento dello Stato sulla società (1).
Mentre oggi lo Stato sociale e regolativo keynesiano lascia spazio, fin dal principio e in tutta naturalezza, a un’economia di mercato totale preesistente e differenziata – di cui esso stesso è un prodotto – e riferisce espressamente i suoi interventi e le sue attività regolatrici e amministrative alla capacità di funzionamento di questa economia, lo statalismo protocapitalistico mercantilista dovette assumere a quel tempo, in modo illusorio, il ruolo di soggetto assoluto della società e della sua economia. Nel secolo che volge al termine, seppure a un grado di sviluppo più elevato, questo fenomeno si è ripetuto nelle pretese stataliste del socialismo reale.
Lo Stato assolutistico protomoderno non ha certo inventato la politica economica né tantomeno l’economia politica della ricchezza astratta e “insensata” per tenere in funzione, nell’autonomia delle sue leggi, un sistema produttore di merce ancora embrionale. Al contrario la sua ambizione era quella di assoggettare l’economia come fosse un’ancella e solo in nome di questa ambizione è sorta l’economia politica moderna. Il mantenimento della corte e dell’esercito permanente del monarca assoluto – un’eredità dello sviluppo precedente, iniziato a partire dal Rinascimento – non poteva più essere finanziato sulla base dei possedimenti feudali di re e principi, da sempre la loro fonte principale di rendite (2).
Per incrementare le entrate dei sovrani si dovette creare un sistema tributario universale. Ma questa misura non solo fece sorgere i lineamenti fondamentali della moderna economia finanziaria ma richiese anche lo stimolo e il controllo cosciente della produzione di merce in quanto fonte principale di tributi monetari, l’intensificazione delle esportazioni e un aumento pianificato della produzione di merce che andasse ben oltre i limiti corporativi delle forze produttive. La manifattura, la divisione forzata del lavoro e il reclutamento coatto di forza–lavoro salariata a buon mercato nata dalla decomposizione della società feudale in via di dissolvimento, condussero a un nuovo modo di produzione che infranse ben presto gli obiettivi circoscritti dell’assolutismo.
Nel suo celebre capitolo sulla “cosiddetta accumulazione originaria”, Marx ha descritto l’irruzione cieca e spontanea degli elementi di questo processo. Da un lato si trattava di capitale monetario che traeva la sua linfa dal sistema coloniale e dal credito statale assolutista:

L’indebitamento dello Stato e quindi l’elemento statalista come ingrediente dell’accumulazione del capitale che si riaffaccia nel XX° secolo e in misura assai più spaventosa, era già una realtà nella preistoria protomoderna del processo di accumulazione che seguirà più avanti.
Dall’altro lato anche gli elementi del moderno lavoro salariato dovevano essere creati dal nulla attraverso l’azione immediata e violenta dello Stato. A partire dal XV° secolo la trasformazione incessante di schiavi e di servi della gleba in “liberi” lavoratori salariati e la “liberazione” sociale dei contadini indipendenti e dei piccoli fittavoli mediante l’espulsione brutale dai loro appezzamenti di terreno, riconvertiti in pascoli disponibili per i grandi proprietari terrieri, poté essere realizzata solo grazie all’amministrazione statale coercitiva del lavoro, alla militarizzazione e al terrorismo di Stato:

Di fatto il prototipo di quei “posti di lavoro” che oggi i moderni lavoratori salariati si contendono avidamente furono letteralmente il carcere e la caserma di lavoro:

In Francia gli operai, in particolare quelli delle manifatture reali, vivono frequentemente in alloggi situati all’interno delle manifatture stesse. – Gli operai di numerose manifatture reali vivono al loro interno proprio come i soldati nelle caserme e ne fuoriescono solo nei giorni festivi – Altre testimonianze adottano l’espressione “rigore claustrale” per la loro condotta di vita. I tempi di lavoro, dei pasti, delle preghiere e del sonno erano strettamente regolamentati. E il rigore di questa disciplina appare ancora lieve se paragonato al trattamento subito da molti operai nelle manifatture centrali tedesche per le quali un’espressione dell’epoca parla di penitenziario, di internamento. Questo vuol dire che una parte non insignificante delle manifatture centrali era identica al carcere. In Germania non solo si impiegavano i reclusi come filatori ma si costruivano galere e si catturavano prigionieri allo scopo di reclutare operai per le manifatture. (Kuczynsky 1967)
L’incapacità di decifrare le proprie aspirazioni come elementi di una modernizzazione da carcere del lavoro testimonia la cecità storica del movimento operaio; ciò è particolarmente evidente nel caso dell’Unione Sovietica. Ad ogni tappa della modernizzazione del sistema produttore di merci l’elemento statalista è sempre apparso in primo piano, anche se nelle forme e nelle vesti più disparate. L’assolutismo era solo una delle prime forme fenomeniche dello statalismo che tuttavia non scomparve affatto con quello.
I regimi rivoluzionari e il bonapartismo mutarono certo le loro finalità sociali e le loro ideologie legittimatorie ma solo per potere continuare a sostenere l’espansione della produzione di merce, forzata dall’assolutismo, fino a che questa divenne un sistema di riproduzione sociale, in grado di camminare sulle proprie gambe. Nella percezione dei protagonisti cambiava solo il soggetto statalista; ma in realtà ad essere davvero scatenata fu solo la cieca autoriflessione del denaro: un processo storico che solo oggi inizia finalmente ad entrare nella sua fase terminale.
Fu Alexis de Toqueville a penetrare per primo questi nessi e a descriverli in un modo ancor oggi esemplare. Nella sua opera L’antico regime e la rivoluzione egli dimostra come la rottura con l’ancien régime non fosse così assoluta come potrebbe sembrare; il suo punto di partenza teoretico, contrapposto alle illusioni ideologiche dei rivoluzionari, è dato dall’identità intrinseca di assolutismo e Rivoluzione Francese, il cui dissidio radicale marca solo un punto di rottura all’interno di un processo basico unitario:


(...)

Questo approccio era certamente consono a quello di Marx. La critica ideologica consente a Tocqueville di riconoscere e di descrivere la continuità del dispotismo:



(...)


L’“omogeneità” e l’”uniformità” del corpo sociale, instaurate tanto dall’assolutismo quanto dalla rivoluzione non rappresentano altro che il suo addestramento per il sistema di produzione di merce in fase nascente. La cosa straordinaria è che Tocqueville riconosce questa connessione pur non esprimendola (come analitico della “sovrastruttura politica”) nelle categorie di una critica dell’economia alla maniera di Marx; ma proprio per questa ragione egli può essere considerato una sorta di Marx della critica alle istituzioni politiche delle democrazie moderne con alla base la forma–merce. Senza lasciarsi travisare dai travestimenti ideologici Tocqueville si rende conto di quanto siano precarie, sia l’illusione del soggetto borghese che si manifesta in ugual misura nell’assolutismo come nella democrazia, sia la volontà di comando del soggetto costituito dalla forma–merce nei confronti della struttura formale, priva di soggetto che lo sovrasta. Non è certo a partire dalla coscienza che è possibile spiegare come:


(...)


Questa logica della “dissoluzione” oltrepassa di molto la situazione dell’epoca, quando tale espressione veniva spesso strumentalizzata dalla reazione aristocratica per scopi palesemente controrivoluzionari. Tocqueville fa riferimento piuttosto all’esito finale di questo processo di dissoluzione nella nostra epoca in cui si è praticamente concretizzata la monade dell’individuo astratto come marionetta dell’automovimento, privo di soggetto, della forma–merce:


(...)


Questa osservazione è ancor più degna di nota poiché Tocqueville non parla come un ideologo conservatore o reazionario della vecchia aristocrazia ma come un paladino critico della nuova società che, tuttavia, non è certo disposto a sottacere la sottomissione di questa società al “potere sconosciuto” del lavoro astratto e del suo movimento tautologico. Proprio per questa ragione le sue affermazioni rispecchianonon solo la preistoria del sistema produttore di merce del XVIII° secolo e della prima parte del XIX° secolo, ma anche, con sconvolgente franchezza, la fine della nostra epoca, il XX° secolo.
L’autentico dispotismo della modernità è l’assolutismo, privo di soggetto, del denaro cioè del lavoro astratto e del suo utilizzo in forma aziendale. Il dispotismo storico dei sovrani assoluti così come quello della Rivoluzione Francese, ben lungi dal sussistere come volontà statalista autosufficiente in grado di determinare da sé i propri obiettivi, fu soltanto la rozza levatrice di questo assolutismo feticistico. Adempì semplicemente alla funzione di “isolare tra le mura” di un’astratta privatezza, gli individui che avevano iniziato a spezzare le loro catene feudali; oggi tuttavia queste mura, in cui essi vivono senza esserne costretti, cominciano a mostrare evidenti crepe e sembrano in procinto di crollare. Quando i cittadini occidentali rabbrividivano e reagivano con disgusto alla visione, per esempio, delle “formiche azzurre” cinesi, dei “soldati del lavoro” sottomessi a un comando dispotico, essi avevano davanti agli occhi, come in una ripresa accelerata, il passato della loro stessa società: lo stadio embrionale di quei soggetti che essi stessi oggi sono.
L’illusione concernente il soggetto, che caratterizza la modernizzazione borghese, creata dall’assolutismo e perpetuata dalla Rivoluzione Francese e poi dal bonapartismo e che in Occidente iniziò a indebolirsi, perlomeno sul piano ideologico, solo nell’ultima fase del XIX° secolo (3), venne ereditata agli inizi del XX° secolo dalla Rivoluzione d’Ottobre in Russia e dal socialismo reale che ne fu il derivato e il cui camuffamento ideologico dissimulò alla meno peggio la realtà dei fatti. In questo caso la teoria di Tocqueville circa l’identità tra “antico regime” e “rivoluzione” nel processo della modernizzazione borghese si dimostra ancora più pertinente. Nelle condizioni di uno stadio di sviluppo relativamente già elevato del sistema produttore di merce in Occidente e di una lotta concorrenziale già progredita sul mercato mondiale, a ogni nuova avanzata della modernizzazione nelle regioni del mondo non ancora sviluppate doveva essere impresso il carattere di uno sviluppo di recupero particolarmente brutale in cui lo statalismo protomoderno non solo veniva ripetuto ma ricompariva in una forma ancora più pura, rigorosa e conseguente rispetto al prototipo occidentale che da lungo tempo aveva esaurito il suo compito.

2.2 Lo Stato razionale borghese di Fichte e il suo riflesso nel socialismo reale

Le ideologie per loro natura sono sempre più coerenti e logiche della realtà sociale che rispecchiano in forma modificata e distorta. Di conseguenza, nella successione storica delle formazioni sociali, queste ideologie appaiono realizzate o perlomeno come realizzabili solo nella realtà di un grado di sviluppo posteriore di cui esse rappresentano un’anticipazione – ammesso e non concesso che questo fatto, un giorno, venga riconosciuto e interpretato. Per esempio la filosofia classica tedesca offre, sotto molti aspetti e sotto molti mascheramenti, riflessioni dirette e indirette, anche di carattere gnoseologico, sulla logica moderna della merce, idealmente in anticipo rispetto agli stadi di sviluppo posteriori. Di tanto in tanto questo nesso si manifesta nitidamente negli scritti di teoria economica e politica.
Questo aspetto risulta particolarmente evidente se si confronta la realtà statalista del socialismo reale della prima metà del XX° secolo con le idee più progressiste nel campo della teoria sociale e con le esigenze programmatiche dell’epoca tardo–mercantilista, illustrate in Germania in modo impareggiabile dal pamphlet di Fichte sullo “Stato commerciale chiuso”, scritto nell’autunno del 1800, le cui tesi centrali potrebbero apparire stupefacenti. Lo “Stato razionale” borghese di Fichte presuppone già un sistema produttore di merce, in cui cioè i “prodotti” sono fin dal principio “merci”, mediate attraverso lo “scambio”; inoltre:


(...)

Il tentativo di realizzare lo “Stato razionale” di Fichte con la sua produzione pianificata di merci, sarebbe stato intrapreso solo 120 anni più tardi. Si capisce quindi come il crollo odierno dell’economia sovietica segni molto più il naufragio ritardato dell’idealismo borghese tedesco che non l’obsolescenza della critica marxiana all’economia politica, cui il socialismo reale poteva fare riferimento solo in modo grossolano e superficiale. Questo nesso sorprendente si rafforza allorché Fichte, non solo caratterizza il suo “Stato razionale” mediante la produzione pianificata delle merci, ma definisce la “proprietà” come diritto al lavoro che rende il lavoratore un cittadino a tutti gli effetti:

Mercato pianificato e diritto al lavoro (ovvero obbligo del lavoro sotto la regia dello Stato): è proprio questo il nocciolo del programma economico del socialismo reale; in effetti si tratta solamente di mercantilismo ideologico, teorizzato programmaticamente già nella fase primordiale di ascesa della modernità. Alla fine Fichte illustra anche il terzo carattere decisivo dell’economia di Stato:


(...)

Anche il monopolio statale del commercio estero del socialismo reale era già contemplato nel programma coerente del mercantilismo. Tutti gli elementi decisivi e le forme di base, apparentemente non capitalistiche, del socialismo di Stato sovietico del XX° secolo (e di tutti i regimi affini) erano già stati tematizzati dal capitalismo stesso e dai suoi ideologi progressisti alle soglie dell’età industriale; non sono sostanzialmente estranei al capitale o al sistema produttore di merce bensì caratteri strutturali della sua genesi storica e pertanto devono ritornare in auge laddove tale genesi deve verificarsi ex novo. Ma, a questo scopo, la critica di Marx all’economia politica risultava superflua visto che tutti gli elementi essenziali del “socialismo” potevano essere rintracciati già una generazione prima in Fichte.
Il capitalismo vale a dire la produzione scatenata di merce, divenuta sistema di riproduzione nella forma dell’automovimento del denaro, non agognava fin dal principio la pura “libertà del denaro” come affermano in continuazione gli ideologi tanto di destra quanto di sinistra. Sarebbe invece il caso di parlare di un movimento oscillatorio di elementi costitutivi antitetici della storia della modernizzazione borghese in cui gli elementi statalisti e quelli monetaristi si alternano e si compenetrano l’un l’altro costantemente. Le teorie della convergenza riflettono compiutamente questo fenomeno, ma in forma attenuata; non come forma di movimento di un conflitto basico irresolubile della modernità, che si va aggravando fino alla crisi, ma come conciliazione eclettica e aconcettuale di questa contraddizione centrale.
Lo Stato e il mercato si condizionano reciprocamente ma non nel senso di un’integrazione, idealmente equilibrabile, tra elementi complementari di una socializzazione civilizzatoria ma come istituzionalizzazione di un contrasto furioso e ostile che conduce fino all’annientamento e alla catastrofe. Vittime della loro incapacità di percepire la propria determinazione formale, i soggetti collaborano alla propria autodistruzione.
L’autentico conflitto di base della modernità, non è quello tra “lavoro” e “non lavoro”, come ha sempre supposto l’ingenuo marxismo del movimento operaio e della lotta di classe, ma quello tra contenuto sociale e forma non sociale e inconscia del lavoro stesso. Questa mostruosa prevaricazione del sistema produttore di merce ovvero la subordinazione di tutte le finalità e di tutti i valori umani e qualitativi, di tutti i bisogni sensibili al fine senza qualità del processo del lavoro morto di trasformare il denaro in più denaro, rende necessaria la contraddizione istituzionale permanente tra Stato e mercato in quanto rappresentazione esterna del contrasto immanente al sistema stesso. La lacerazione interna del soggetto borghese si manifesta nella sua esistenza duplice e dissociata come agente del denaro e del mercato da una parte e di cittadino dello Stato dall’altra.
Lo Stato, l’altro volano della macchina dell’alienazione accanto al denaro, assume per parte sua una duplice natura. Sul piano storico, in una forma protomoderna, assolutistica o rivoluzionaria borghese e dittatoriale, è la levatrice del sistema produttore di merce, ma allo stesso tempo ne è parte integrante e immanente; è il garante istituzionale del mantenimento delle condizioni generali del capitalismo ma contemporaneamente agisce come un fattore di regolazione che interviene attivamente nel processo di riproduzione del lavoro morto non appena i settori “improduttivi” delle infrastrutture (ricerca, smaltimento dei rifiuti, assistenza sociale e sanità, educazione, riparazione dei processi distruttivi sociali e ecologici) iniziano a soffocare la struttura di automovimento del denaro; infine dal punto di vista ideologico lo Stato appare sia come Moloch “divoratore di uomini” (Glucksmann 1978) e Leviatano mostruoso che minaccia perennemente di sopraffare l’“autentica” soggettività borghese, sia come deus ex machina, lenitivo per tutte le frizioni e le sofferenze della socializzazione negativa.
Questa contraddizione tra Stato e mercato che si riproduce come contraddizione intrinseca allo Stato stesso e in cui si rappresenta l’insanabile conflitto della modernità, genera quel movimento storico oscillatorio in cui dominano alternativamente statalismo e monetarismo senza che mai si instauri l’equilibrio di una produzione di merce non soggetta a disturbi: dallo statalismo assolutistico e rivoluzionario dell’epoca protomoderna, al liberalismo manchesteriano e poi allo “Stato guardia notturna” del capitalismo industriale nella sua fase ascendente; dal più tardo statalismo dell’economia di guerra dell’epoca imperialistica, allo Stato anti–crisi del keynesianismo e infine alla contro–reazione monetarista e alla deregulation globale, che oggi appare già obsoleta. Alla fine della sua storia il sistema produttore di merce sembra avere il fiato corto. Statalismo e monetarismo si alternano in una successione sempre più frenetica come si dimostrerà in seguito.
Il socialismo del movimento operaio non poteva assolutamente concretizzare il programma della critica dell’economia politica di Marx, per il quale non era ancora giunto il momento (a questo riguardo lo stesso Marx si faceva sistematicamente delle illusioni). Invece il socialismo reale ha ripetuto le idee tardo–mercantiliste di Fichte conducendole alla “realizzazione”. Ma per questo scopo, esso doveva concentrare inevitabilmente la sua attenzione e i suoi interessi sullo Stato moderno, creazione e macchina del sistema produttore di merce, illudendosi di poterlo adoperare come uno strumento per la “liberazione della classe operaia”, mediante una semplice inversione del segno di “classe”.



Note

1. Il fatto che nella Repubblica Popolare Cinese, gli esattori delle tasse del governo centrale vengano presi a bastonate e rinchiusi nei porcili dai contadini, si concilia alla perfezione con il massacro di Stato di Piazza Tien An Men e con le velleità di comando, rozze e immediate, del regime nei confronti di un’economia di mercato in via di liberalizzazione. Tali contraddizioni, in qualche caso raccapriccianti, del processo di modernizzazione capitalistica si sono verificate anche nel corso della costituzione del capitalismo in Occidente; di esse però non si ha più una memoria concreta. Coloro che restano sgomenti al cospetto dei fenomeni avvenuti in Russia e in Cina, invece di riconoscervi il passato della società del lavoro, della democrazia e dello Stato sociale si dimostrano ingenui o sono ottenebrati dall’ideologia legittimatoria del tardo–capitalismo occidentale.
2. Questo nesso è stata messo in risalto di frequente:
3. Si fa riconoscibile nelle sempre più veementi “filosofie di crisi” della soggettività borghese plasmata sulla forma–merce, a partire da Kierkegaard e Nietzsche, passando per la “filosofia della vita”, fino ad arrivare all’esistenzialismo. Il filo di queste filosofie della crisi si è dipanato parallelamente alla desoggettivazione reale del sistema sociale, fino all’attuale disorientamento post–keynesiano.
4. Trotskij, anch’esso irretito nella concezione di uno statalismo modernizzatore, dice più di quel che crede quando definisce la burocrazia stalinista come “bonapartista”, per quanto con un proposito meramente accusatorio (“la rivoluzione tradita”); si tratta di un’analogia che riflette solo un aspetto ben preciso nella storia della costituzione del sistema produttore di merce (Trotskij 1936). Lo stesso vale per il concetto di “bonapartismo” che August Thaleimer applicò al fascismo tedesco (Thaleimer 1930). Tale concetto non solo evidenzia (involontariamente) un’affinità strutturale tra il socialismo da caserma fascista e quello sovietico ma palesa contemporaneamente i limiti concettuali dei marxisti del movimento operaio nella loro critica dell’economia politica.
5. Perlomeno se si interpreta letteralmente lo scritto di Fichte. Comunque sia la filosofia classica tedesca (e quindi anche il pensiero di Fichte) manifesta una ricchezza dottrinale storicamente ancora incompresa che in singoli elementi sembra trascendere le esigenze immediate dell’epoca e oltrepassare i limiti del sistema produttore di merce del quale allora non si possedeva neppure il concetto. Non solo vi è contenuta in nuce la critica dell’economia politica che Marx sviluppò posteriormente, ma perfino idee dalle implicazioni tuttora misconosciute. Questo distingue, senza ombra di dubbio, un Fichte dalle patetiche banalità degli epigoni del marxismo e degli economisti odierni, “realisti” nel senso più miserevole del termine.
6. Quasi en passant il socialdemocratico francese Jean Jaurés alla fine del secolo scorso dichiarava: “Fichte fu il primo ad abbozzare la teoria del valore che in seguito Marx ha compiutamente sviluppato” (Jaurés 1891). Secondo Jaurès Marx – che in Schumpeter figura come un semplice epigono di Ricardo – non fu altro che un epigono di Fichte. La scoperta della formulazione da parte di Fichte di una teoria del valore–lavoro, si ricollega con l’autocoscienza affermativa del movimento operaio. Ma in questo modo si tace sul fatto che la teoria di Marx, in realtà, contiene una critica radicale del feticismo della merce. Di conseguenza non è per nulla sorprendente che Fichte abbia goduto di grande considerazione e da parte dei nazionalsocialisti e da quella degli ideologi del movimento operaio.
7. Sfortunatamente anche Fernand Braudel ragiona in modo del tutto convenzionale e aconcettuale: Lo Stato viene descritto come un principio astratto, un’entità autonoma che si contrappone, ma solo esteriormente, al “capitalismo”, invece di essere identificato, nella sua forma moderna, come un elemento costitutivo e allo stesso tempo immanente del capitale stesso. E’ la dimostrazione di come i “nuovi storici” (e non solo loro) prendendo a pretesto la differenziazione scientifica predichino in realtà il più spaventoso vuoto concettuale: a furia di contare gli alberi si perde di vista il bosco. Non esiste affatto la contrapposizione esteriore tra Stato e capitale di cui parla Braudel, ma solo la contraddizione interna al capitale stesso, di cui lo Stato è un semplice elemento, già a partire dalla fase protomoderna della storia della costituzione di questa formazione sociale.
8. Un tratto caratteristico della coscienza borghese, anche della sinistra, è proprio l’interpretazione dell’epoca precedente alla luce dell’elemento del rapporto dualistico di volta in volta in auge, invece di riconoscere la complementarità antagonistica di questi elementi nel processo storico complessivo della modernità. Anche l’ideologia del socialismo reale, come si vedrà, può essere decifrata in questo contesto.
9. L’anarchismo e le correnti ad esso affini (sindacalismo ecc.) forniscono solo una pseudo–alternativa al mainstream del vecchio movimento operaio, poiché la loro avversione nei confronti dello Stato trae linfa proprio da tutte quelle ideologie che teorizzano una produzione di merce “autodeterminata” e “giusta” (ad esempio quella di Proudhon), disconoscendo completamente sia le leggi oggettive del sistema produttore di merce sia la relazione intrinseca tra la forma–merce e lo Stato moderno. Questo genere di immanenza borghese è puramente complementare al marxismo del socialismo di Stato e rappresenta, per così dire, il lato liberale o monetarista della contraddizione borghese in seno al movimento operaio che riproduce così sul proprio terreno il dualismo tra Stato e mercato, statalismo e monetarismo, cittadino titolare di diritti e soggetto di scambio.