mercoledì 17 giugno 2009

1. Logica e ethos della società del lavoro


1.1 I vincitori perplessi
Mai vi fu tanta fine. Con il crollo del socialismo reale, tutta un’epoca si dissolve e diviene storia. L’ormai familiare costellazione della società globale del periodo del secondo dopoguerra si frantuma dinanzi ai nostri occhi in modo incredibilmente repentino. Siamo giunti alla fine di un’era e tuttavia sorge spontaneo un interrogativo: alla fine di quale era? Dalla prospettiva del conflitto tra l’Ovest e l’Est, ormai passato in secondo piano, sembrerebbe di primo acchito che l’Occidente abbia trionfato e che il suo sistema si sia rivelato il migliore.
Se il concetto di conflitto tra i sistemi fosse inteso alla lettera, allora non si potrebbe fare altro che prendere atto di una capitolazione sociale, economica, teorica e pratica di proporzioni colossali che nessuno avrebbe mai ritenuto possibile (e tantomeno in un intervallo di tempo così breve). “Uno spettro si aggira vacillando” (Süddeutsche Zeitung). In Unione Sovietica, ma non solo lì, si va verso il ripudio “dell’idea della dittatura del proletariato” e la celebrazione della proprietà privata mentre viene proclamata la transizione a un’economia di mercato conforme al principio della concorrenza. Insieme al colosso centrale sono finite in ginocchio anche le società della sua periferia, le regioni ad esso subordinate e i suoi vessilliferi ideali. La Repubblica Democratica Tedesca ha posto fine ai suoi giorni suicidandosi e anche in Ungheria “il capitalista assurge a figura positiva”. In Italia il Partito Comunista, il cui passaggio nelle file della socialdemocrazia si era comunque già consumato da lungo tempo, assicura che “falce e martello sono ormai dei ferrivecchi“, mentre la classe intellettuale italiana, con la sua ricusazione del marxismo, commette un “parricidio per disinteresse”. La Libia di Gheddafi “tenta un cauto allontanamento dal rigido socialismo della rivoluzione”. In Etiopia Menghistu “rinuncia al marxismo”, il Mozambico, così come l’Angola, voltano le spalle “impoveriti, al marxismo” mentre il governo di Hanoi “si affida a John Maynard Keynes”.
Questo florilegio di citazioni, tratte dalla pubblicistica a partire dal 1989, potrebbe tranquillamente seguitare ad libitum. Non desta quindi stupore il fatto che più di un ideologo dell’apparente vincitore storico sia caduto in preda all’euforia. Nell’estate del 1989 Francis Fukuyama, vicedirettore dello staff di pianificazione del Ministero degli Esteri statunitense, in un articolo pubblicato dal periodico trimestrale National Interest, decretò in modo tanto precipitoso quanto saccente la “fine della Storia”; una sentenza la cui divulgazione è stata fulminea e che da allora viene ripetuta fino alla nausea. Come se non bastasse la tesi di Fukuyama si fondava sulla concezione hegeliana di una “forma definitiva, razionale della società e dello Stato” la cui autentica, quanto singolare, concretizzazione sarebbe proprio l’american way of life. E anche l’editorialista dell’International Herald Tribune Charles Krauthammer riteneva che fosse questa la risposta, quantomeno imbarazzante, all’“interrogativo di Platone circa la forma migliore di governo”.
Effettivamente è praticamente impossibile contestare l’evidenza di una vittoria relativa del mondo occidentale se continuano ad essere validi i criteri del precedente conflitto sistemico e soprattutto se una metacritica appare addirittura inconcepibile. Ma proprio in questo sta il dilemma. È proprio vero che l’Occidente ha agito in modo cosciente e autocosciente su quel terreno che ora si illude di calpestare da trionfatore? Del resto se la reazione negativa della piagnucolosa sinistra occidentale alle grida di giubilo ufficiali dei corifei dell’economia di mercato, consiste solo nella commiserazione delle inammissibili gerontocrazie di un’economia statale alla Potjomkin trattate alla stregua di vittime innocenti della “tracotanza e dell’aggressione permanente dell’imperialismo”1, questo significa solo che gli esponenti di questa sinistra non comprendono più la realtà e si comportano come combattenti della guerra fredda, acciaccati e sofferenti per i malesseri della vecchiaia, che all’improvviso si sentono come ringiovaniti ma non sanno più bene cosa fare con la sposa avuta in regalo. Il carattere spettrale delle forme di reazione ideologica al cospetto del collasso dell’Est, provenienti tanto dal campo della sinistra quanto da quello della destra, da un lato rimanda al fatto che tutte queste forme appartengono ormai a un’epoca crepuscolare ma dall’altro ci consente di riconoscere, come sollevando un velo, la singolare assenza di soggetto dei processi sociali di base.
I protagonisti della costellazione mondiale fin qui vigente gettano la maschera – e non solo su ambedue le sponde dell’Elba –, palesandosi nella loro pietosa condizione di meri automi di uno sviluppo storico cieco e oggettivato che si è costituito dietro le loro spalle. Proprio questa è la ragione dello smarrimento dell’Occidente di fronte al crollo del suo nemico giurato, il sistema del socialismo reale, e che fa tutt’uno con lo sgomento delle gerontocrazie di un tale socialismo. Uno strano vincitore, sbalordito dalla sua stessa superiorità e dalle conseguenze della sua vittoria. Ma se non è stato l’operato delle classi politiche occidentali nel corso del conflitto sistemico a causare il crollo del socialismo reale quanto piuttosto il drammatico fallimento dei suoi meccanismi funzionali interni, allora l’incapacità di percepire questa potenzialità di crisi e di catastrofe da parte delle élites di entrambe le sfere politico–economiche, cui non difettano certamente le informazioni, fa emergere la verità: da entrambe le parti i detentori del potere, almeno in apparenza, devono essere afflitti dalla medesima forma di cecità.
Ma se entrambe le fazioni in lotta sono sopraffatte da processi sociali dalla forza simile a quella di un fenomeno naturale, allora si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un fondamento comune a entrambi i sistemi antagonisti. E’ dunque possibile che il terreno su cui si sono dati battaglia adesso stia iniziando a vacillare. E nella pubblicistica borghese alle grida trionfali ma un po’ ingenue degli ideologi dell’immediatezza, iniziano già a mescolarsi voci dubbiose e ammonitrici: “Sarà davvero questa la società perfetta, destinata a trionfare per sempre sul socialismo?” (Gräfin Dönhoff, Die Zeit 22.9.1989). In tutta franchezza la società del sistema occidentale non sembra averne neppure l’aria. Tuttavia qualche cattivo presentimento da parte di individui che, malgrado tutto, considerano questo sistema come il loro sistema e quindi ne prendono le difese, potrebbe essere interpretato come un’autocritica indulgente volta a mitigare un po’ la profonda soddisfazione per il trionfo.
A prescindere dalla moderazione grondante saggezza che la coscienza occidentale manifesta nei confronti della propria vittoria – e diretta solo ad evitare lo scatenamento dell’ira divina a causa della propria hybris – si tratta piuttosto di comprendere se la crisi particolare del sistema perdente, abbia rappresentato solo l’inizio di una crisi totale in grado di minacciare anche il presunto vincitore e che ha le sue radici nei fondamenti comuni a entrambi i sistemi; se così fosse proprio questi fondamenti potrebbero fornire una base solida per una metacritica. Indubbiamente l’ideologia borghese della modernità ha già prodotto da tempo gli elementi di una tale metacritica senza tuttavia riuscire a penetrare i fondamenti della società che rimangono enigmatici. A partire dagli anni ’50 le teorie della “convergenza” in Occidente avevano profetizzato un riallineamento, nel bene come nel male, di queste forme di società che, solo in apparenza, sembravano escludersi reciprocamente.
Da un lato l’affinità interna veniva ricondotta a quei presupposti comuni della modernità concernenti la tecnica e le scienze naturali; in particolar modo da parte di tutte quelle correnti ispirate al pessimismo culturale che addebitano i fenomeni di crisi del Novecento alla base industriale della società come tale (vedi ad esempio Freyer 1955) e ammettono semmai una possibilità di superamento solo mediante il riferimento insopprimibile a un’alienazione ontologica. Dall’altro l’idea della convergenza si alimentava di tutte quelle dottrine economiche, impregnate di keynesismo, che sostenevano la necessità imprescindibile di una compenetrazione reciproca tanto dei meccanismi di mercato quanto della regolazione statale: l’Est avrebbe dovuto legittimare la funzione del mercato e l’Ovest avrebbe dovuto fare lo stesso con lo Stato. Ma questa concezione si limita ad attivare quel dualismo eclettico che caratterizza sotto svariati aspetti la moderna coscienza teorica borghese: il rapporto tra mercato e Stato assume le sembianze di un matrimonio conflittuale ma indissolubile tra la realtà e il suo concetto e lo stesso vale anche per diadi come “individuo” e “società”, “produzione” e “circolazione” o “economia” e “politica” ecc. Anche in questo caso un elemento storico, specifico delle società moderne viene convertito con uno spirito conciliatorio e con moderato pessimismo, in un elemento ontologico.
Ad ogni modo non abbiamo assistito né a una conciliazione assimilativa tra il mercato e lo Stato né tantomeno a un processo ontologico di trasformazione delle società industriali scientificizzate, ma solamente a un tracollo storico. Se questo crollo non sta a indicare la vittoria del sistema di mercato occidentale – che viene concepito come una formazione totalmente estranea al socialismo reale ignominiosamente trapassato – ma mette in luce un fondamento comune ad entrambi i sistemi, pericolante e sul viale del tramonto, allora un tale fondamento va ricercato oltre il paradigma della società industriale e oltre la relazione tra il mercato e lo Stato. Il mercato e lo Stato, proprio come gli agenti della tecnologia e delle scienze naturali messi in moto, obbediscono a una logica sociale di base più profonda; identificarla come società del lavoro non designa assolutamente una condizione ontologica fondamentale dell’umanità.
Se la perplessità dei più riflessivi tra i “vincitori” rappresentasse qualcosa di più dell’autocritica decisamente ipocrita di un number one della storia nonostante tutto estremamente sicuro di sé, se davvero stesse maturando oggettivamente una crisi globale progressiva di proporzioni tali da giustificare molto più seriamente di quanto non si immagini gli infausti presagi degli scettici e delle voci che invitano alla prudenza, in tal caso questa crisi dovrebbe essere localizzata a quel livello su cui trovano posto tutti i sistemi sociali della modernità finora conosciuti. L’espressione crisi della società del lavoro, in circolazione ormai da tempo, pur alludendo finora a una problematica particolare, senza fare riferimento alla forme di base della società, potrebbe essersi originata dal presentimento di questa metacrisi in via di sviluppo.


1.2 Lavoro astratto come meccanismo fine a se stesso

Potrebbe apparire tanto più strano parlare di una crisi della società del lavoro, dal momento che, tanto l’ideologia borghese, quanto il marxismo del movimento operaio – e in misura persino maggiore –, hanno sempre identificato nel “lavoro” l’essenza sovrastorica dell’uomo; il marxismo trasformò ciò che ai suoi occhi sembrava essere un fondamento positivo nel fulcro universale della sua critica alla società borghese. L’anatagonismo sociale e storico della modernità, che i marxisti concepivano come lotta di classe, venne combattuto sul terreno comune della società del lavoro, i cui limiti divengono visibili ora e la cui crisi finale si sta avvicinando.
Il lavoro come tale, definito nella sua arida astrattezza, non è in alcun modo una categoria sovrastorica. Nella sua forma specificamente storica esso non è altro che l’utilizzo astratto e aziendale di forza–lavoro umana e di materie prime. In questo senso esso è specifico della modernità e come tale è divenuto in egual misura un presupposto indiscusso di entrambi i sistemi antagonisti del dopoguerra. Tuttavia il lavoro nella sua singolare astrattezza può essere determinato anche mediante l’altrettanto peculiare carattere di fine a se stesso. Questo carattere tautologico è l’elemento che contraddistingue sia il sistema borghese occidentale sia il moderno movimento operaio; l’orgoglio feticistico nei confronti di un dispendio di forza–lavoro il più grande e intenso possibile, svincolato dai bisogni concreti, soggettivi e sensibili, si rende visibile nel “punto di vista del lavoratore” e nell’ethos del lavoro astratto.
In nessun altro luogo questo ethos protestante del lavoratore astratto, in una società forgiata per diventare una macchina da lavoro – che Weber indicò come il marchio storico e ideologico del capitalismo –, è stato realizzato con più fervore e rigore che nel movimento operaio e nelle formazioni del socialismo reale.
Non ha alcuna importanza se la motivazione che legittima la subordinazione dell’uomo alla macchina del lavoro non viene più riferita agli individui, ma piuttosto allo Stato e ai suoi metaobiettivi economici; la sottomissione all’astrazione “lavoro” appare solo in una forma più grossolana e rigida, in quanto non dispone ancora della fallace sembianza di una finalità individuale. Risulta quanto mai valida mutatis mutandis la lezione di Max Weber:

Ma soprattutto il “summum bonum” di quest’etica, il guadagno di denaro e di sempre più denaro, è così spoglio di ogni fine eudemonistico o semplicemente edonistico, è pensato in tanta purezza come scopo a se stesso, che di fronte alla felicità ed all’utilità del singolo individuo appare come qualche cosa di interamente trascendente e perfino di irrazionale.
Il guadagno è considerato come scopo della vita dell’uomo, e non più come mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali. (Weber 1920)
Ma questa inversione nel contesto del “senso” soggettivo, mediante cui Max Weber descrive un’inversione, che tuttavia non percepisce con chiarezza, nel processo riproduttivo della società (3) poteva derivare storicamente solo dal clima ideologico–religioso del protestantesimo; però le nuove virtù (borghesi) create in tale contesto non devono necessariamente limitarsi a questo specifico luogo della storia con i suoi travestimenti ideali:

La capacità di concentrazione del pensiero, come l’atteggiamento di chi si sente obbligato di fronte al proprio lavoro, si trovano qui in particolar modo di frequente unite con una stretta economicità, che calcola il guadagno ed il suo grado, e con un severo dominio di sé stesso ed una morigeratezza, che aumentano straordinariamente la capacità di lavoro.
E’ questo il terreno più propizio per quella concezione del lavoro come scopo a sé stesso, come vocazione, quale la richiede il capitalismo; qui vi ha la massima probabilità di vincere, mercé l’educazione religiosa, il tran tran tradizionalistico. […] L’avversione e la persecuzione che per esempio gli operai metodisti ebbero a subire da parte dei loro compagni di lavoro nel 18° secolo, non ebbe alcuna relazione con le loro eccentricità religiose […] ma con la laboriosità che era loro specifica. (Weber op. cit.)


Il socialismo del movimento operaio non fu mai troppo distante da questa disciplina alla motivazione feticistica, propria dell’antico protestantesimo. Se quest’ultimo pose la religione all’ufficio del lavoro astratto, esso la trasformò in una religione secolarizzata della ricchezza nazionale deificata e totalmente estranea ai bisogni umani; proprio il socialismo rappresentò per la Russia alle soglie della modernità borghese, un succedaneo più o meno adeguato dell’elemento religioso che fu costitutivo per il modo di produzione capitalistico nell’Europa Occidentale dopo la Riforma.
Alexej Stachanov, l’uomo che nella notte del 31 agosto 1935, nel bacino del Donetsk, avrebbe estratto ben 102 tonnellate di carbone durante un turno di 5 ore e 45 minuti, divenne un’icona sovietica e un mito del lavoro; egli incarnò veramente il principio capitalistico del dispendio astratto di forza–lavoro nel cui ambito il lavoro viene posto come fine a sé tautologico. Il carattere naturalistico dell’”ideologia delle tonnellate” si limita semplicemente ad esprimere questo principio in quantità astratte di materia e di prodotti, deprivati della loro qualità sensibili. E’ assai penetrante a questo riguardo l’osservazione di Thomas Mann, che nel giugno del 1919, nelle riflessioni relative alla composizione del suo romanzo La montagna incantata annota:
(...)

Questo scritto sul lavoro astratto non vede sminuito il suo valore per il fatto di essere stato composto nel linguaggio dell’artista piuttosto che in quello del critico dell’economia politica. E’ un attacco diretto, liberatorio e profetico, a quella divinizzazione del lavoro che ha reso di fatto il socialismo del movimento operaio un mero “prolungamento” del principio capitalistico invece che un fattore in grado di operarne il superamento: nella realtà sociale dell’Unione Sovietica il socialismo si assunse proprio il compito storico di imporre tale principio.


1.3 La forma sociale del sistema produttore di merce

Indubbiamente il principio protestante della solerzia astratta e avulsa dai contenuti sensibili non esprime semplicemente un postulato morale; al contrario la sua morale peculiare trae origine dalla struttura formale di una società in cui il lavoro si trasforma in un fine in sé e la società stessa in una macchina volta al dispendio di forza–lavoro. Ma fu proprio questa forma sociale che sfuggì a Weber (e non solo a lui) il quale finì così con il presupporla alla stregua di un assioma. Solo prendendo le mosse da questa forma, la cui determinazione sembra creare enormi difficoltà, è possibile comprendere il lavoro dell’epoca moderna nella sua specificità storica, al di là di ogni condizione ontologica fondamentale.
Questa specifica forma di esistenza del lavoro insieme al suo concetto, è di fatto incompatibile con tutte le formazioni sociali anteriori della storia umana, poiché in queste ultime il lavoro, il suo prodotto e l’appropriazione di quest’ultimo, si presentano ancora essenzialmente nella loro forma concreta, immediata e sensibile: come “valori d’uso” nel linguaggio dell’economia politica. Anche se il lavoro, come labor nel senso degli antichi, vale a dire fatica e tormento, occupava integralmente l’orizzonte vitale della maggioranza degli individui, questo fatto andava comunque messo in relazione con il grado di sviluppo relativamente esiguo delle forze produttive nel “processo di ricambio materiale con la natura” (Marx); il lavoro era una necessità imposta dalla natura ma proprio per questa ragione non si trattava di un dispendio astratto di forza–lavoro e di un fine in sé della società.
Nel sistema produttore di merce della modernità, la logica della necessità si è capovolta: nella misura in cui le forze produttive, grazie all’industrializzazione e alla scientificizzazione, infrangono la coercizione e la gabbia della “prima natura”, esse vengono nuovamente imprigionate da una coercizione sociale secondaria, generata inconsciamente. La forma di riproduzione sociale fondata sulla merce diviene una “seconda natura” la cui necessità, come nel caso della “prima natura”, si contrappone agli individui in modo cieco e costrittivo, sebbene la sua matrice sia puramente sociale.
La società del lavoro intesa come concetto ontologico, rappresenta solo una tautologia poiché nel passato l’organizzazione sociale, quali che fossero le sue forme derivate, era necessariamente caratterizzata dal lavoro. Di una società senza lavoro si poteva al massimo fantasticare, magari nelle raffigurazioni ingenue del Paradiso o nelle favole del paese di Cuccagna. Ma a partire dal Rinascimento la correlazione naturale tra fatica e produzione di ricchezza venne deflagrata dal denaro.
Per la coscienza moderna il fatto che il lavoro vivo si trasformi in lavoro morto tramite la produzione di merce e quindi si “rappresenti” (un’espressione di Marx) nella forma di incarnazione del denaro appare un’ovvio. In effetti pur essendo il denaro una categoria reale che ha oltrepassato diverse formazioni storiche, la categoria economica fondamentale del valore che si cela al suo interno, è stata oggetto di riflessione sistematica solo nelle teorie economiche moderne. In quanto merci i prodotti sono cose–valore astratte, deprivate del loro contenuto sensibile e soltanto in questa forma peculiare realizzano la mediazione sociale. Nella critica marxiana dell’economia politica questo valore economico viene determinato in modo puramente negativo, come una forma di rappresentazione svincolata da ogni contenuto concreto e sensibile, reificata, feticistica, astratta e morta di lavoro sociale passato, incarnato nei prodotti e la cui evoluzione in seno al movimento formale e immanente delle relazioni di scambio lo porta a diventare denaro in quanto “cosa astratta”. Il valore è il marchio di una società che non è padrona di se stessa.
In aperta contraddizione con questa visione, la teoria borghese, a cominciare dai suoi classici, ha accettato questa forma come se fosse un apriori, rinunciando di fatto ad ogni tentativo di scandagliarla. Proprio la sua “naturalezza” sembrava essere la prova migliore del suo carattere ontologico, esente da ogni ulteriore chiarimento da parte dell’indagine teorica. Ma in questo modo l’inversione che sostituisce la “prima natura” con la “seconda” subisce un occultamento: su questa inversione si sono costituite tutte le società dell’epoca moderna e proprio in essa si origina il carattere di scopo a se stesso del lavoro moderno.
La merce nelle società premoderne era qualcosa di assolutamente differente dalla merce dell’epoca moderna: essa non poteva in alcun modo costituire la forma di riproduzione sociale, restando sempre una semplice “forma di nicchia” (Marx) nel contesto delle relazioni di produzione e di appropriazione tipiche delle economie “naturali”; stando così le cose la società nel suo complesso non si configurava certo come un sistema produttore di merce. Il lavoro volto alla produzione di merci (per esempio il lavoro degli artigiani nelle città) restava confinato nell’orizzonte sociale del valore d’uso: tale produzione era finalizzata solo allo scambio di oggetti concreti. Per questa ragione si può correttamente affermare che tali prodotti si “esaurivano nel valore d’uso” (Marx), anche se dovevano passare attraverso le astrazioni connaturate al processo di scambio sul mercato.
Ma questo non è assolutamente il caso della moderna produzione di merce. Il valore, nella figura del plusvalore, mai elevato in passato al rango di rapporto di produzione, non rappresenta più semplicemente la forma di mediazione sociale dei valori d’uso sensibili ma finisce invece col relazionarsi tautologicamente con se stesso: il processo feticistico diviene così autoriflessivo e in questo modo costituisce il lavoro astratto come meccanismo fine a se stesso. Ora questo processo non si “esaurisce” più nel valore d’uso, ma si manifesta come automovimento del denaro vale a dire come trasformazione di una quantità di lavoro astratto e morto in una quantità maggiore di lavoro astratto e morto (plusvalore) e quindi come processo tautologico di riproduzione e autoriflessione del denaro che solo in questa forma diventa capitale e diviene così moderna. Ma l’esistenza del denaro come capitale svincola il dispendio di lavoro dalla creazione di valore d’uso sensibile e lo converte in uno scopo a sé astratto. Il lavoro vivo appare ora solo come espressione di lavoro morto autonomizzato, mentre il prodotto concreto e sensibile vale solo come espressione dell’astrazione–denaro.
Le risorse umane e materiali (forza–lavoro, strumenti, macchine, materie prime e lavorati) non sono più destinate tout court alla soddisfazione dei bisogni nel “processo di ricambio con la natura” ma servono dell’autoriflessione tautologica del denaro che genera ancora “più denaro”. In altre parole i bisogni concreti possono continuare ad essere soddisfatti solo in forza di una produzione di plusvalore, avulsa da ogni contenuto sensibile e che si afferma nel corso di un processo inconscio come produzione di guadagno astratto aziendale. Lo scambio sul mercato non è più finalizzato alla mediazione sociale dei beni d’uso quanto piuttosto alla realizzazione del guadagno cioè alla metamorfosi del lavoro morto in denaro; la mediazione dei beni d’uso rappresenta solo un fenomeno collaterale di questo processo particolare che si svolge sul piano del denaro.
In questo modo il processo vitale degli individui e della società complessiva viene assoggettato alla terrificante banalità del denaro e al suo automovimento tautologico che si manifesta alla superficie nelle sue varie declinazioni storiche, come la ben nota “economia di mercato” moderna. Dietro la leggiadra soggettività che opera lo scambio sul mercato si nasconde il rude “uomo del lavoro” che solo in una forma eccezionalmente rozza assume le sembianze di uno Stachanov; dietro la facciata rutilante delle confezioni variopinte dei valori d‘uso si cela il carattere feticistico di capitale dei prodotti che li riduce a una spettrale “gelatina di lavoro” (Marx). La loro esistenza sensibile rappresenta solo un fenomeno marginale e un male necessario per il processo fondato sul lavoro astratto e il denaro.
La sottomissione del contenuto sensibile del lavoro e dei bisogni alla cieca autoriflessione del denaro ha in sé qualcosa di mostruoso. Nel corso dello sviluppo della modernità questa aberrazione si è manifestata nel corso della storia, e su scala sempre crescente, nelle crisi in cui risorse umane e materiali permangono massicciamente inutilizzate poiché, inspiegabilmente, non sono più in grado di ottemperare alla trasformazione, fine a se stessa, di lavoro vivo in denaro.
D’altro canto però lo stesso sviluppo ha generato le moderne forze produttive attraverso le fasi di un processo intimamente contraddittorio, determinando così un colossale ampliamento dei bisogni e delle possibilità per gli individui. Durante la fase storica ascendente del moderno sistema produttore di merce i suoi effetti collaterali involontari eclissarono per molto tempo il suo contenuto negativo con elementi positivi. Fino a quando questo sistema fu in condizione di assolvere degnamente la sua “missione civilizzatrice” (Marx), esso “funzionò”, affermandosi contro tutti i rapporti di produzione premoderni, corporativi e statici. Le crisi non erano altro che mere interruzioni di questo processo di ascesa e apparivano ogni volta superabili in linea di principio.
Anche il movimento operaio moderno si integrò in questa costellazione del sistema produttore di merce nella sua fase di travolgente ascesa, assieme al suo marxismo, che ne rappresentava la corrispondente riflessione teorica e infine alla genesi della versione socialista della moderna società del lavoro, il cui tracollo si è compiuto sotto ai nostri occhi. Imprigionato dentro l’orizzonte dell’ascesa storica del lavoro astratto il carattere tautologico fine a se stesso di quest’ultimo non poteva essere superato né sul piano ideale né su quello materiale.
Il “mercato pianificato” dell’Est, come una siffatta definizione lascia trasparire, non abolì neppure in minima parte le categorie del mercato; per questa ragione anche nel socialismo reale rifecero la loro comparsa tutte le categorie basilari del capitale: salario, prezzo e profitto (guadagno aziendale). Lo stesso principio fondamentale del lavoro astratto venne non solo assimilato ma addirittura potenziato all’estremo.
Ma allora in cosa consisteva realmente quella differenza tra i sistemi che inizia ora a dissolversi? Fin dal principio il socialismo reale non aveva la minima possibilità di superare la società capitalistica della modernità in quanto esso stesso era parte del sistema borghese produttore di merce; di conseguenza esso non sostituì questa forma storica di socializzazione con una forma differente ma incarnò semplicemente uno stadio di sviluppo distinto in seno alla medesima formazione epocale. La promessa di una società post–borghese futura rivela adesso la sua autentica natura di regime preborghese di transizione verso la modernità, condannato alla stagnazione; un fossile del passato eroico del capitale.

Note

1. Il principe Grigorij A. Potjomkin (1739 – 1791) fu uno dei favoriti di Caterina II la Grande. Dopo la conquista russa della Crimea si adoperò per ripopolarne il territorio fondando tra l’altro la città di Sebastopoli. Ma per ottenere il plauso dell’imperatrice non esitò ad organizzare grottesche messinscene, ordinando la costruzione di un gran numero di villaggi fasulli, in cui gli edifici avevano solo una facciata di cartapesta, che la zarina, desiderosa di ispezionare personalmente l’operato del suo amante, potè ammirare dal finestrino della sua carrozza senza subodorare l’inganno. Spesso questi pseudo-villaggi venivano smantellati subito dopo il passaggio dell’imperatrice (N.d.T.).
2. Al presente questa argomentazione viene riproposta, in una formulazione più consona ai tempi, dagli ecologisti fondamentalisti i quali o sono assolutamente ignari della sua origine da una Lebensphilosophie intrisa di pessimismo culturale, oppure si sforzano in tutti i modi di disconoscerla. Ma la critica immediata alle scienze naturali e all’industrializzazione, come è sempre avvenuto nel corso della sua storia quasi bisecolare, finisce invariabilmente con l’assumere una valenza affermativa che annulla il carattere storico delle formazioni sociali reali e converte le crisi sociali in crisi ontologiche. L’irrazionalismo fondamentalista (tanto ecologico quanto religioso) trae sostanza dalla sua impraticabilità che lo rende idoneo al ruolo di ideologia legittimatoria negativa.
3. Tuttavia Weber, a differenza di Marx, non sottopose ad alcuna critica formale la moderna società del lavoro, le cui forme di base gli apparvero invece naturali e ontologiche, opinione condivisa del resto sia dai marxisti del movimento operaio che dagli esponenti dell’economia politica borghese.
4. Significativamente il concetto critico di “valore” della teoria marxiana, denunciato come forma feticistica, subisce nell’ideologia del movimento operaio un trattamento del tutto opposto mediante la definizione affermativa del lavoratore come “creatore di valore”. Tuttavia, attraverso questa figura ideologica, il contrasto, impossibile da ricomporre, tra valore di scambio feticistico e valore d’uso sensibile degenera definitivamente in una poltiglia informe priva di contenuto concettuale.