Robert Kurz
Da sempre i conflitti sociali
sono anche battaglie concettuali per il potere di "dare definizioni"
sul modo in cui i problemi debbano essere generalmente percepiti. Potremmo
tranquillamente dire che i problemi sono definiti quasi naturalmente in accordo
con la logica del sistema dominante. I concetti assumono così colorazioni
corrispondenti come fossero dei camaleonti. Per questo scopo tuttavia non è
necessario alcun accordo cosciente e nessuna censura, in quanto il meccanismo
di costruzione dei concetti ed il processo di definizione avvengono in modo più
sottile.
Una determinata "forma di
discorso" si propaga quasi in modo genetico e così improvvisamente tutti
parlano la stessa lingua apparentemente con la più profonda convinzione. In
particolare per quel che riguarda l’ambito socio–economico si afferma nella
ricerca scientifica, nei media e nella classe politica una precisa
"regolazione del linguaggio", una "lingua del consenso",
che opera rigidamente proprio perché non viene decretata amministrativamente.
Questo stato di cose si fonda sul
fatto che la scienza, i media e la politica non funzionano in modo muto ed
automatico come la "mano invisibile" del mercato. Essi costituiscono
il lato "soggettivo" che si pone in relazione alle leggi sistemiche
"oggettive". La conformità con gli imperativi capitalistici non è
perciò spontanea ma deve sempre venire prodotta in un processo discorsivo. Una
funzione essenziale di questo discorso consiste nel fatto che i partecipanti si
danno il cambio nel dare man forte alle pretese del bollettino meteorologico
capitalista cui tutte le relazioni sociali e culturali debbono essere adattate.
Proprio per questo occorre una regolazione del discorso. E in questo senso la
scienza, i media e la classe politica costituiscono una specie di cartello che
sta ben attento a che nessuno canti fuori dal coro. Viene presupposto un quadro
di riferimento generale in cui l’attuale clientela deve essere sospinta secondo
i criteri del marketing e allo stesso tempo tenuta a freno.
La semantica ideologica del
controllo e dunque chi ha l’elementare potere di dare definizioni, può
stabilire che cos’è la "realtà" e quindi che cos’è una
"realpolitik". L’odierno cartello semantico dominante ha elevato le
esigenze dell’amministrazione capitalistica della crisi a principio di realtà e
ha corrispondentemente ridefinito il concetto di riforma. L’antico pathos
sociale ed emancipatorio del riformismo come si era sviluppato durante le
battaglie per la contrattualizzazione dei salari, per il welfare e per i
servizi pubblici viene oggi strumentalizzato all’insegna del controriformismo.
Le campagne per la privatizzazione e le restrizioni sociali hanno fatto loro il
motto: "Con noi arrivano tempi nuovi". Quanto più privato, tanto più
a buon mercato, quindi migliore.
Tutti si preoccupano che i
"riformatori" abbiano la meglio contro coloro che si rivolgono
"eternamente al passato". Si viene invitati a "compromessi
riformistici per la riorganizzazione della società". Ad esempio: la spesa
dovrà essere ridotta del 5 o del 10%? Dovranno essere chiusi gli ospedali
oppure gli asili d’infanzia? Dovranno essere eliminati i benefici per i malati
di cancro o per i disabili? C’è un aumento dell’1% da qualche parte ma il
triplo delle spese da un’altra? "Miglioramento per le persone" così
si definisce il grado di peggioramento per cui ci si è "battuti" con
la pratica riformista. La lotta politica consiste solo nello stabilire chi con
maggiore abilità può ancora vendere i tagli sempre più duri. E la sinistra
politica è minacciata, se non opera "riforme convincenti" di
"cadere nell’insignificanza". La "volontà dell’elettorato",
così lascia trasparire il controllo semantico, è così pervasa di
"realismo" e di "maturità dei cittadini" da essere avida di
bassi salari, distruzione del sistema sociale e privatizzazione.
Questa regolazione dominante del
discorso è tanto insensata come gli annunci noiosi che circolano da anni circa
una prossima ripresa. Se si continuerà così il nome un tempo rispettabile di
"riformatore" rischia di diventare un insulto, con cui l’uomo comune
indicherà un vicino o un cane sgradevole. Il lavaggio del cervello non sempre
funziona. Il potere dominante di definire la realtà potrebbe venire interrotto
attraverso un controrealismo sociale. In questo senso un’estesa campagna contro
il progetto dei bassi salari sarebbe molto più che una mera politica sociale
all’interno dei limiti dell’aritmetica politica, ma una kulturkampf (battaglia
di cultura), un’offensiva per un elementare livello di civiltà. Una tale
contro–realpolitik che persegua inflessibilmente tutte le ramificazioni, le
sottigliezze e le meschinità dell’amministrazione repressiva della società e
del lavoro avrebbe buone possibilità al livello delle masse.
Questo risulta sempre più valido
per una lotta seria per i servizi pubblici come parte essenziale degli standard
vitali. Gli "uomini" ne hanno abbastanza di ferrovie, servizi postali
e, come si minaccia, di centrali idriche quotate in borsa così come di medicine
di seconda classe e di un sistema di non–istruzione di bassa lega. Il
"controfuoco" (Bourdieu) in questo senso non deve assolutamente
restare aggrappato all’eterno passato della tradizione burocratica di Stato. E’
pensabile anche un concetto di servizio pubblico nella forma di società
no–profit autoamministrate che dovrebbero gestire l’apparato materiale delle
infrastrutture. L’orientamento nel senso del valore d’uso pubblico non sarebbe
certo qualcosa che va al di là della forma–valore ma un elemento possibile e
perfezionabile di una trasformazione emancipatoria.
Se il capitalismo non può
mantenere il livello di civiltà, non si deve più "accettarlo" in modo
riverente. Al contrario si deve trarre la conclusione che il capitalismo non è
più in grado di "accettare" un numero sempre maggiore di individui.
La necessità da parte di coloro che sono stati privati socialmente dello status
di cittadinanza di forme di rappresentanza organizzata non sarà facilmente
risolta come per i profughi della Seconda Guerra Mondiale, che furono
riassorbiti attraverso il "miracolo economico", ma al contrario
aumenterà massicciamente e non solo nella Germania Orientale. L’aritmetica del
cartello politico e semantico dominante non può dar loro voce, ma solo condurre
tali voci al mulino del risentimento nazionalista e razzista. E’ vero: va
proclamata la responsabilità personale e non la fede nello Stato. Ma la
responsabilità personale in senso antiburocratico di un contromovimento sociale
autonomo e non nel senso di una fede acritica e autoritaria nel mercato da
"accettare con gioia".