lunedì 12 marzo 2007

La primavera nera dell'antimperialismo


Robert Kurz




Una sconsacrata alleanza tra gli sbandati della modernizzazione




É possibile che sognare il sogno del domani muova il mondo. Ma alcuni sogni sono meri fantasmi del mondo appassito di ieri. Gran parte della sinistra non dispone oggi di nessun orientamento in relazione al futuro. Ovunque, nel mondo, la sinistra preferisce tornare ai paradigmi della politica tradizionale fondata sugli stati-nazione. Pertanto, la globalizzazione reale o è negata e ignorata, o è sottovalutata. E la critica non comincia dalle categorie basilari, storicamente obsolete, del "lavoro astratto", della forma merce, della "valorizzazione del valore" e delle relazioni capitalistiche tra i generi nella nuova società mondiale. Essa si limita a un riferimento superficiale al "capitale finanziario" e al potere imperiale esterno degli Usa. Nelle nuove circostanze, si origina in questo modo una convergenza di posizioni di sinistra e di destra, con un accento antisemita. Poiché, nella storia moderna, gli ideologi irrazionali hanno sempre identificato il denaro speculativo con gli "ebrei".


In questo clima di evocazione regressiva delle forme storicamente decadenti della politica, anche l’antimperialismo sta vivendo una primavera nera che non ha più nulla a che vedere con le speranze di rivoluzione nazionale del passato. Contro l’imperialismo securitario occidentale e il colonialismo di crisi, capeggiati dagli Usa, la sinistra politicamente pietrificata propone sempre più un contrappeso esteriore, costituito da regimi che, nel processo globale di crisi, animano apparentemente la vecchia sovranità nazionale. In realtà il carattere di questi regimi è sbiadito. Si tratta di una concezione di pura politica di potere, senza alcuna considerazione per il contenuto storico-sociale e ideologico. C’è qui una differenza decisiva in relazione all'antimperialismo del passato che, anche se non poté porre in questione il moderno sistema produttore di merci e, insieme, il mercato mondiale, comunque sostenne una rivendicazione ideale di emancipazione, malgrado tale riduzione. Il presupposto erano i margini di uno sviluppo nazionale entro il percorso dell’espansione capitalista. Sotto le condizioni della nuova crisi mondiale di ciò non è restato niente.


Nei termini della riformulazione di un antimperialismo svincolato dalle rivendicazioni sostanziali del passato e ridotto a un guscio vuoto, il presidente del Venezuela, Hugo Chávez, considerato il nuovo portatore della speranza della sinistra latino-americana, ha elogiato il "triangolo della forza" formato da Iran, Russia e Cina, animando così una specie di alleanza contro il neoliberismo e contro la politica nordamericana delle guerre per l’ordine mondiale, già fallita in Iraq. Ma qui non si manifesta più nessuna opposizione autonoma che possa sostenere una logica interna di sviluppo e liberazione. Si mostra soltanto l’altro lato della crisi globale. Caratterizzati come nemici o rivali degli Usa e della politica interventista occidentale, questi stessi regimi sono parte del processo di destabilizzazione e, in questo senso, sono inseriti nel decadimento della ragione borghese. Il quadro comune del mercato mondiale, che nella storia della modernizzazione diede impulso all’opposizione tra il potere imperiale e l’antimperialista "lotta per il riconoscimento", è divenuto, con l'estinzione della potenza della modernizzazione, il campo di forza di una tendenza alla barbarie che include tutti gli attori statali.


Si tratta piuttosto di un’alleanza diabolica tra gli sbandati di una modernizzazione arrivata alla fine, destinata a sostenere il nuovo antimperialismo degli stati nazionali. Soprattutto, non si tratta di rivitalizzare un programma economico nazionale contro la globalizzazione; ciò che è in gioco sono gli effetti collaterali della globalizzazione. La base della presunta "forza", nel caso dei paesi esportatori di petrolio - Russia, Iran e Venezuela -, non è una prospettiva storica indipendente che va oltre il moderno sistema produttore di merci, ma il banale raddoppio del prezzo del petrolio, che ha portato miliardi di dollari nei rispettivi fondi. Tuttavia, il prezzo del petrolio non è alcun indicatore di una trasformazione sociale, non è nulla più che una funzione nel movimento del mercato mondiale.
Allo stesso tempo, non si tratta di una riproduzione sociale autosostenibile, ma di un momento meramente speculativo e totalmente incerto nel contesto della crisi del sistema mondiale.


Pertanto, la benedizione inaspettata dei miliardi del petrolio non consolida affatto programmi di sviluppo duraturo. Il regime di Putin in Russia rappresenta soltanto la rovina di una ex-potenza mondiale della fallita "modernizzazione di recupero". I servizi segreti, convertiti in Stato, amministrano la miseria di masse disperate con la repressione sociale e politica, allo scopo di riprodurre su un terreno ridotto l’incubo di un impero periferico, che ora si alimenta soltanto di petroldollari. Il regime dei mullah, che aspira alle armi atomiche sulla base dei petroldollari, devasta l’Iran col terrore religioso e rappresenta un neopatriarcato misogino. I dissidenti e la sinistra sono decimati a migliaia; il nuovo presidente Ahmadinejad fa dell’eliminazione di Israele il suo programma e definisce "mito occidentale" lo sterminio degli ebrei europei da parte dei nazisti. E' un segno della depravazione intellettuale quando Chávez accetta la follia antisemita e chiama Ahmadinejad "fratello". Ma anche il caudillismo messianico dello stesso Chávez presenta tratti dubbiosi. La "rivoluzione bolivariana", che sulla base di un’ideologia nazionalista limitata deve volgersi a paradigma per l’America Latina, si incontra e coincide con la sua persona. Le riforme sociali organizzate in forma parastatale senza dubbio favoriscono immediatamente i poveri, ma, dal punto di vista di una riproduzione sociale autonoma, esse rimangono vuote e incerte nella misura in cui si basano unicamente in una sovvenzione oscura sostenuta nei petroldollari. E, nel contesto di una "fratellanza" con un regime come quello iraniano, si oscura l’orizzonte ideologico di questi sforzi.


Dall’altro lato, la presunta "forza" della Cina si incontra in una relazione di precaria reciprocità con la nuova ricchezza speculativa del petrolio dei paesi esportatori. Poiché è proprio l’industrializzazione cinese volta all’esportazione che ha contribuito essenzialmente all’esplosione del prezzo del petrolio. In pochi anni la Cina è diventata il secondo maggiore consumatore di petrolio dopo gli Stati Uniti. Tuttavia, ciò che appare come offensiva cinese nell’esportazione, non è certamente la funzione di un programma di sviluppo nazionale; è soltanto, finora, il maggiore effetto secondario della globalizzazione. Questo flusso di esportazioni si basa principalmente sugli investimenti dei conglomerati occidentali (in primo luogo degli Usa e dell’Unione Europea), che, nel corso del loro outsourcing globale, hanno fatto della Cina la piattaforma e il fulcro delle catene transnazionali della creazione di valore. Di conseguenza la Cina ha registrato, dopo gli Usa, il secondo maggior afflusso di investimenti diretti stranieri. Ossia, nessuna traccia di autonomia nazionale; solamente l'effetto dei salari estremamente bassi e dell’assenza di diritti: schiavi, perlopiù giovani, e spesso acquartierati nelle aree dell’economia esportatrice. Allo stesso tempo questi investimenti rimangono insulari. La riproduzione sociale nell’area maggiore è minacciata dal collasso da parte di questo stesso sviluppo. É in questa maniera che si sono costituiti in Cina i paradossi di un capitalismo di minoranza sfrenato e transnazionale, sotto la protezione del tetto politico dell’apparato di potere comunista paternalistico, alla vecchia maniera. Con azioni poliziesche e militari, una burocrazia corrotta cerca di placare le contraddizioni sociali che lacerano il paese.


In queste condizioni, il vago progetto di un’alleanza antimperialista dei paesi esportatori di petrolio con la Cina è una chimera. É probabile che nulla di una tale alleanza si realizzi, poiché le rispettive posizioni nel mercato mondiale sono molto diverse e perfino contraddittorie. Nella misura in cui la Cina è diventata il nuovo eldorado per l’outsourcing dei conglomerati transnazionali, si sono ridotti gli investimenti diretti all'America Latina. Il Messico, che ancora negli anni ’90 era, nel quadro del Nafta [accordo di libero commercio tra Usa, Messico e Canada], una delle regioni di investimento preferita dai conglomerati statunitensi, ormai è in questo senso rinsecchito. La vicinanza con gli Usa ormai non conta più, visto che il lavoro cinese è molto più economico. Un destino simile ora minaccia il resto dei paesi latino-americani. Le speranze nei grandi investimenti cinesi in Argentina e nel Brasile sono state rapidamente deluse.


Sono invece le merci a buon mercato delle industrie cinesi (in realtà, prodotti dell’outsourcing transnazionale dei conglomerati degli Usa e dell’Unione Europea) a inondare i mercati latino-americani. Certamente, anche le esportazioni latino-americane verso la Cina sono aumentate. Ma, in primo luogo, si tratta quasi esclusivamente di materia prima. Con ciò, si riproduce appena, via globalizzazione, la vecchia relazione di dipendenza tra centro e periferia in una nuova configurazione. In secondo luogo, le esportazioni e le importazioni dalla Cina sono completamente sbilanciate. Nel 2005, le esportazioni del Brasile verso la Cina sono salite al 9%, le importazioni, a loro volta, al 50%. Il crescente eccedente di importazioni provenienti dalla Cina va da articoli come fuochi d’artificio, giocattoli, tessuti e scarpe, fino all'elettronica, alle automobili, aerei, acciaio e prodotti chimici. L’America Latina si vede minacciata, in questa maniera, da una nuova deindustrializzazione.


Il progetto di una alleanza antimperialista tra i paesi esportatori di petrolio, la "rivoluzione bolivariana" e la Cina si rivela interamente fragile quando l’ultimo anello della catena globale é inserito nell’analisi. Così come la nuova ricchezza del petrolio dipende dall’industrializzazione della Cina, questa dipende dal consumo degli Usa. Qui si chiude il circolo. É unicamente il flusso di esportazione del tutto unilaterale che attraversa il Pacifico ciò che sostiene la pretesa crescita. L’inondazione del mercato latino-americano è solo l'effetto secondario dell'inondazione del mercato statunitense con le merci provenienti dalla Cina. Il consumo statunitense, a sua volta, si fonda essenzialmente sull’afflusso di capitale monetario transnazionale, vale a dire sul debito. Gli Usa sono da molto tempo il paese con il maggior debito esterno del mondo. La solvibilità di questo debito è garantita, tuttavia, dalla posizione degli Usa come ultima potenza mondiale, soprattutto in ragione della macchina militare senza eguali.


Le politiche sociali ed estere dei paesi esportatori di petrolio, sovvenzionate con petroldollari, dipendono pertanto, in ultima istanza, dalla congiuntura che unisce la solvibilità e il potere militare del proprio nemico imperiale. Che contraddizione! Chavez deve pregare che la malvagia potenza degli Usa si mantenga intatta, poiché, in caso contrario, il castello di carta dei sogni politici diffusi crolla. É probabilmente il momento irrazionale più profondo di questa costellazione, che provoca l’oscuramento ideologico del presunto nuovo antimperialismo, fino a giungere a sentimenti antisemiti. Questo dimostra ancora una volta che la lotta per l’emancipazione sociale può essere condotta solamente da un movimento transnazionale che proceda dal basso, senza la rassicurazione della politica del potere nazionale. Il carisma antimperialista su base nazionalista nelle nicchie economiche incerte della globalizzazione non può pretendere alcuna sostenibilità.











Original DER SCHWARZE FRÜHLING DES ANTIIMPERIALISMUS


traduzione by lpz