Postfazione
Il Gruppo Krisis, la critica del lavoro
e il "primato civile degli italiani"
Anselm Jappe
Nella società del lavoro, il lavoro sta diventando raro come l’aria respirabile nella città. Eppure si esige da tutti di lavorare, se vogliono vivere. Ogni giorno vengono lanciate nuove proposte su come si potrebbe ritornare al pieno impiego. Nessuna ha mai funzionato, né potrà mai funzionare. Né la licenza all’illimitato sfruttamento della forza-lavoro, né il tentativo di sottomettere il capitale globalizzato alla ferula dello Stato riescono a invertire questa tendenza. Altri hanno preso atto dell’impossibilità di ricostituire la società del lavoro di una volta e cercano di salvare le condizioni di vita attuali anche per coloro che non trovano più lavoro. Vogliono fare buon viso a cattiva sorte. Quasi nessuno mette in dubbio il lavoro come principio fondante della società in cui viviamo. Cosa che fa invece il gruppo tedesco Krisis nel Manifesto contro il lavoro. Ma qual è il punto di vista da cui parte una critica così radicale?
Da quasi vent’anni, il gruppo Krisis, riunito intorno all’omonima rivista, sta sviluppando in Germania una delle critiche più articolate, innovatrici e radicali della società capitalistica contemporanea. L’ha fatto al di fuori delle università e delle cappelle grandi e piccole della sinistra: tramite la rivista "Krisis", giunta al ventiseiesimo numero, per mezzo di articoli e libri, alcuni dei quali – soprattutto quelli di Robert Kurz, l’autore più noto del gruppo – hanno raggiunto una notevole diffusione, e attraverso seminari, conferenze e incontri [1]. Partiti originariamente da una posizione marxista ancora relativamente tradizionale, gli autori di Krisis sono approdati man mano a una critica globale della società della merce che include anche quasi tutti i suoi presunti oppositori. Ecco alcuni dei capisaldi di questa critica.
Da più di due secoli, cioè da quando il capitalismo industriale è diventato il modo di produzione prevalente, si discute solo della distribuzione dei suoi presunti benefici, senza più criticare la sua stessa natura. Per le molte anime del movimento operaio si trattava di ottenere, tramite la lotta di classe oppure tramite riforme, che il plusvalore andasse a coloro che lo producono e di trasformare gli operai in cittadini a pieno titolo. Nel frattempo, tutti, a destra e a sinistra, nei paesi dell’economia di mercato come in quelli che si chiamavano "socialisti", avevano completamente interiorizzato i presupposti dello sfruttamento capitalistico, cioè il processo per cui l’attività produttiva diventa lavoro: il suo lato concreto è allora secondario rispetto al suo lato di lavoro astratto. In quanto "lavoro", l’attività è una mera quantità di tempo indifferenziato speso per produrre una merce di cui non contano né l’utilità né la bellezza, ma solo la capacità di trasformarsi in denaro, cioè di vendersi sul mercato. Il valore di questa merce si misura solo sul lavoro morto che contiene, che permette a sua volta di accumulare una maggiore quantità di lavoro morto sotto forma di denaro e capitale, in un processo senza fine e senza altro senso che quello di perpetuare se stesso [2]. Marx aveva criticato il lavoro astratto e la merce, il valore economico e il denaro. Ma la sua critica delle categorie di base del capitalismo è stata ben presto dimenticata dai suoi epigoni, a favore del tentativo – ugualmente prefigurato nei suoi scritti – di organizzare meglio e distribuire più "giustamente" la produzione di questi presupposti che ormai passavano per "naturali", e non più per il risultato di una particolare organizzazione sociale.
La società basata sulla trasformazione tautologica di lavoro vivo in denaro non può però durare in eterno. Fin dall’inizio essa contiene in sé delle contraddizioni insanabili: esiste solo grazie all’assorbimento di lavoro vivo, che è l’unica fonte di valore e plusvalore, ma al contempo la concorrenza spinge a un incessante aumento della produttività tramite la tecnologia e dunque a una riduzione dell’uso di lavoro vivo. I produttori privati hanno bisogno di delegare allo Stato tutte le spese infrastrutturali, ma esso soffoca sotto il loro peso crescente. La produzione di merci vorrebbe prescindere da ogni contenuto e considerare ogni cosa solo in quanto mera forma, cioè come pura espressione quantitativa della forma merce, ma viene sempre raggiunta di nuovo dal contenuto (per esempio nella crisi ecologica: dal punto di vista della forma merce un cavallo e un’automobile sono la stessa cosa, se rappresentano la stessa quantità di denaro; dal punto di vista del contenuto non sono affatto uguali e producono conseguenze assai diverse).
La crisi che la produzione capitalistica di merci porta da sempre nel suo seno è stata rimandata più volte grazie all’espansione assoluta della produzione – soprattutto con il modello "fordista-keynesiano", basato sull’industria automobilistica, la piena occupazione, il welfare e un forte ruolo dello Stato. Ma la crisi del meccanismo di valorizzazione del capitale è diventata palese dopo il 1970. Attualmente, solo il gigantesco parcheggio del capitale inutilizzabile nei reami fittizi delle borse mondiali maschera ancora la quasi totale perdita di sostanza che il modo di produzione capitalistico ha già subito. Ma dopo il crollo dei settori più deboli del sistema mondiale di produzione di merci avvenuto negli anni Ottanta e Novanta, dai paesi "socialisti" dell’Est a quelli del Sud, fino ai paesi "emergenti" in America Latina e in Estremo Oriente, anche i centri della produzione capitalistica stanno ormai entrando in una fase di declino inarrestabile. Un declino che si manifesta non solo con tassi-record di disoccupazione e crescita zero dell’economia, astronomici debiti pubblici e privati e colossali fallimenti d’imprese, ma anche con l’esaurirsi del ruolo dello Stato nazionale, con il graduale abbandono dei modesti standard di civiltà raggiunti nei campi dell’educazione, della sanità, della sicurezza ecc., con la distruzione delle basi naturali della vita e con la crescente incapacità di molti individui di sopportare le attuali condizioni di esistenza.
Nel suo cammino teorico, il Gruppo Krisis è partito dal nucleo dimenticato della teoria di Marx – la critica di merce e valore, lavoro astratto e denaro – per comprendere man mano quanto la tradizionale lotta di classe per la riappropriazione del plusvalore fosse ancora parte integrante del sistema che non sapeva trascendere. Nel suo tragitto iconoclastico – in rapporto tanto alla coscienza dominante quanto a quella d’opposizione – Krisis doveva necessariamente arrivare a smantellare un’altra categoria sacra della modernità: quella del "lavoro". La sua critica non poteva riguardare solo il lavoro sfruttato, il lavoro salariato, il lavoro alienato, e neanche solo il lavoro astratto [3]. Doveva mettere in discussione il lavoro tout court. Non certo per negare l’attività. Ma per negare la presunta necessità di essere attivi, non in vista di un fine concreto la cui utilità è stata coscientemente deliberata, ma per produrre al solo scopo di produrre. In verità, il capitalismo impedisce tante attività quante ne impone: condanna molte persone a rinunciare a sfruttare le risorse che hanno per le mani, solo perché non sono più "redditizie". Basta pensare agli innumerevoli contadini del Sud del mondo a cui il mercato mondiale impedisce di continuare la loro attività millenaria.
Le società precapitalistiche non conoscevano neanche il concetto di "lavoro", né quello di "economia" [4]. Le attività produttive facevano parte dell’insieme della vita sociale e non erano organizzate come una sfera a parte. Perciò il concetto di "lavoro" e quello di "lavoro astratto" sono in realtà identici. Il lavoro, anche quello cosiddetto "concreto", costituisce sempre un’astrazione che isola un aspetto della vita umana dal suo contesto, opponendo le attività produttive alla riproduzione domestica, alla cultura, al gioco, ai riti ecc. Non si può perciò opporre il "buon" lavoro concreto al "cattivo" lavoro astratto, perché non possono che esistere, come le due facce dello stesso "lavoro". La produzione di più valori d’uso possibili può essere altrettanto tautologica quanto quella di valore di scambio.
Neanche si tratta di esaltare il "lavoro creativo", il lavoro artistico o intellettuale (o presunto tale) per opporlo all’avvilente lavoro produttivo di tipo tradizionale. Da diversi anni alcuni teorici, per ingenuità o per cinismo, portano avanti un discorso secondo cui il possesso di un computer e di un sapere professionale (per di più di dubbia natura) "incorporato" nel proprio cervello basterebbero per sottrarsi alla tirannia del lavoro capitalistico. Qui una certa retorica post-operaista si incontra curiosamente con l’elogio neoliberale (già alquanto stantio) delle meraviglie della new economy e della microimprenditorialità. Gli scritti di questo volume seguono una traccia ben diversa: non bisogna mettere in discussione solo i contenuti del lavoro (interessante e creativo oppure noioso e imposto), né la sola questione dello sfruttamento e delle gerarchie (per quanto rimangano, naturalmente, importanti), ma soprattutto il ruolo del lavoro come forma-base della vita sociale: ogni attività è permessa, anzi richiesta sotto forma di "lavoro", se riesce a diventare un prodotto vendibile, mentre la migliore o più utile delle attività, che però non si vende, non è un "lavoro" e dunque non ha diritto a esistere, se non come "hobby" negli spazi sempre più piccoli lasciati liberi dal terrorismo del lavoro.
Vi erano dunque buoni motivi per abbandonare il più ristretto terreno dell’elaborazione teorica e tentare un’offensiva pubblica su vasta scala. Nel 1999 Krisis lanciò dunque il Manifesto; esso non pretende apportare novità teoriche rispetto agli altri testi del gruppo che mettono a nudo il meccanismo del lavoro, ma cerca di riassumerli nel modo più efficace e fruibile possibile. Fu pubblicato come brochure autoprodotta e venne presentato durante molti dibattiti, accolto dalle proteste, spesso vivaci dei marxisti "tradizionali". Da allora è stato pubblicato in Brasile (il paese, fuori dalla Germania, dove le tesi di Krisis hanno trovato finora più eco), in Francia, in Spagna, in Portogallo e in Messico; su internet sono disponibili traduzioni in persiano, russo e inglese. La traduzione italiana, benché eseguita rapidamente, è rimasta a lungo inedita. E’ stata rifiutata da una dozzina di editori, e quasi esplicitamente per il contenuto: quando viene messo in discussione il lavoro, gli anarchici ortodossi e gli editori commerciali, i leninisti e gli alternativi, i liberali e gli editori "antagonisti" hanno ciascuno qualcosa da obiettare.
La diffusione internazionale di questo pamphlet è un buon segno in un momento in cui i telespettatori di tutti i paesi sono incitati, con desolante monotonia, a cercare dei "posti di lavoro" che non trovano più. Tuttavia, un certo limite del Manifesto risiede nei suoi numerosi riferimenti a delle particolarità della situazione tedesca [5]. Sia per comprendere meglio questi riferimenti, sia per riconoscere, tramite il confronto, i tratti distintivi del ramo italiano della società mondiale del lavoro, è utile tenere conto di quanto segue.
Dopo la Seconda guerra mondiale fu realizzato in Germania un sistema di protezione sociale assai sviluppato (le cui origini, come si sa, risalgano però alla lotta di Bismarck contro la socialdemocrazia). Chi viene licenziato dopo aver lavorato almeno un anno (inclusi i lavori temporanei finanziati dallo Stato stesso come misure contro la disoccupazione) riceve per un anno il 60% dell’ultimo stipendio (inizialmente la quota era più alta, ma è stata abbassata più volte negli anni Novanta), poi per diversi anni una quota minore, se manca di altre risorse. In compenso deve presentarsi regolarmente all’ufficio di collocamento. Se l’ufficio di collocamento gli propone un lavoro, può rifiutare solo se questo lavoro è "inaccettabile" perché troppo al di sotto della sua qualifica o del suo ultimo salario, troppo lontano dalla sua residenza ecc. Se rifiuta senza motivo "valido" perde il sussidio. I criteri per sapere quali lavori sono "accettabili", e per chi, sono stati ridefiniti più volte in senso sempre più restrittivo; inoltre adesso viene chiesto ai disoccupati di dimostrare che si impegnano attivamente nella ricerca di un lavoro. Lo scopo è sempre quello di escludere più persone possibili da questo sussidio.
Chi non lo riceve, e comunque ogni persona che non abbia risorse proprie, può domandare il "sussidio sociale", che in cambio di umilianti pratiche burocratiche per dimostrare il proprio stato di bisogno permette una modesta esistenza (bisogna tener conto del fatto che quasi nessuno in Germania abita più con i genitori dopo i vent’anni e che un’abitazione propria, per quanto piccola, è considerata un diritto dell’uomo). Chi riceve il "sussidio sociale" può essere obbligato a svolgere quasi gratuitamente dei lavori "socialmente utili", per esempio pulire i parchi e cimiteri. Una minaccia che a lungo è rimasta piuttosto teorica, ma che da qualche anno gli uffici preposti a questa moderna amministrazione della povertà stanno spesso mettendo in pratica – più a scopo deterrente che con finalità economiche.
Da quando è uscito il Manifesto, la volontà politica di spingere i disoccupati tedeschi a lavorare a ogni prezzo si è ancora notevolmente rafforzata, e le proposte di una commissione governativa appositamente istituita per "riformare il mercato del lavoro" sono state per mesi al centro di un acceso dibattito. Ma a giudizio di tanti opinion maker tutto questo non è ancora sufficiente e bisogna agitare la sferza in modo ancora più brutale. Mentre una parte della società tedesca rimane ligia all’"etica protestante" del lavoro, chiede di lavorare perché non sa che altro fare nella vita e disprezza i "parassiti", un’altra parte, più piccola, ha scoperto che spesso è più conveniente campare più o meno bene con questi sussidi statali piuttosto che eseguire lavori ingrati per un salario magari appena superiore ai sussidi (bisogna tener conto che una famiglia può ricevere fino a 1500 euro al mese di "sussidio sociale", e che molti lo integrano con lavori al nero; il sussidio di disoccupazione invece dipende dall’ultimo stipendio). Per la disperazione del capitale, non è facile convincere persone in queste condizioni a lustrare le scarpe ai benestanti o a farsi ogni giorno quattro ore di viaggio. Dall’altra parte, il costo del sistema diventa proibitivo quando ci sono stabilmente più di quattro milioni di disoccupati. Nella passata epoca di prosperità e di pacificazione sociale, il capitale sembrava aver dimenticato una delle regole di base del capitalismo, freddamente annunciata alla fine del Settecento dagli economisti inglesi: bisogna mettere i poveri davanti all’alternativa di lavorare in qualsiasi condizione oppure di morire di fame. La chiamavano la "costrizione silenziosa". Ecco perché le autorità tedesche cercano di escogitare sempre nuovi mezzi per costringere i disoccupati ad accettare qualsiasi lavoro oppure a rinunciare agli aiuti pubblici. Un vero ricatto, perché in generale i disoccupati tedeschi sono davvero senza lavoro (il settore "informale" esiste, ma molto meno che in Italia), né possono contare molto sulle famiglie.
Anche negli altri paesi europei settentrionali, la disoccupazione sullo smantellamento dello Stato sociale occupa un posto centrale nella vita politica. Tuttavia, vi rimane ancora qualcosa da difendere, e le resistenze sono numerose. Un osservatore critico come Krisis sa che il welfare è sempre servito all’integrazione del materiale umano nella società capitalistica; inoltre, diversamente dal riformismo filo-statalista come viene professato da Attac o da "Le monde diplomatique", Krisis non si fa nessuna illusione che si possa bloccare la crisi fondamentale della società delle merci e ritornare all’epoca aurea del capitalismo con un semplice "intervento politico". Tuttavia, Krisis riconosce che la distruzione attuale dello Stato sociale non farà altro che gettare buona parte della popolazione nella barbarie di una concorrenza cannibalizzata che allontana sempre di più ogni prospettiva di emancipazione.
In Italia, come si sa, le cose stanno diversamente. Da sempre laboratorio per nuove tecniche di dominazione sociale che combinano l’arcaico e il più moderno, l’Italia ha preso nella seconda metà del Novecento una strada particolare anche per quanto riguarda le tecniche per imporre il lavoro. La grande diffusione del precariato e del lavoro nero spinge in modo assai efficace gli individui ad accettare qualsiasi lavoro. Tutto ciò che in Francia, in Germania o in Inghilterra i governi cercano ancora di introdurre, tra mille difficoltà, in Italia purtroppo è da sempre realtà per buona parte della popolazione: una forza-lavoro oltremodo "flessibile", che accetta, soprattutto se è giovane, meridionale o immigrata o se deve fare la "gavetta", di lavorare per salari minimi o anche gratis (nella speranza di una futura assunzione), di lavorare solo quando il suo "datore di lavoro" ne ha effettivamente bisogno, di poter essere licenziata da un momento all’altro e che si rassegna alla pratica del lavoro interinale e dei salari regionalmente differenziati. Come si sa, milioni di italiano considerano una fortuna anche un lavoro che si trova molto al di sotto degli standard legali in materia di retribuzione, sicurezza, orari, igiene.
I dipendenti regolari, pubblici o privati, spesso sono ben difesi in Italia; per citare un esempio attuale, le difficoltà incontrate nella "riforma" dell’articolo 18 sul "licenziamento per giusta causa" dimostrano che perfino un governo come quello di Berlusconi non osa sfidare troppo i sindacati. Ma coloro che hanno un tale status da difendere sono in numero sempre minore, fino a ridursi a una vera e propria "aristocrazia operaia" (o impiegatizia). Nel contempo crescono silenziosamente, senza bisogno di iniziative del governo e di battaglie con i sindacati, tutt’al più rilevate dagli immancabili rapporti annuali del Censis, quelle forme "atipiche" di lavoro con cui l’Italia si adegua, più rapidamente di molti altri paesi, al capitalismo post-moderno: a parte il settore informale, cresce soprattutto il lavoro pseudo-autonomo. Gli stessi servizi che prima venivano eseguiti da salariati adesso sono affidati a lavoratori "autonomi" o micro-imprenditori (il cosiddetto outsourcing). Questa tendenza è globale, ma l’Italia è uno dei pochi paesi dove i lavoratori autonomi sono già più numerosi dei lavoratori dipendenti. Per sopravvivere sul mercato, in un regime di concorrenza spietata, questi lavoratori "autonomi" sono spesso condannati a infliggersi livelli di autosfruttamento e condizioni di lavoro che nessun proletario classico avrebbe accettato; per di più debbono cercare ogni giorno di vendere la loro merce e assumersi tutti i rischi della loro "indipendenza".
In Italia, più ancora che altrove, il fatto di avere un lavoro, o un "buon" lavoro, è considerato segno di superiorità individuale, glorificando tutti i mezzi che portano al successo e colpevolizzando tutti coloro di cui il mercato del lavoro non ha più bisogno. Già adesso, l’Italia è una preoccupante dimostrazione di come una società capitalistica sviluppata possa riuscire a vivere con un altissimo numero di disoccupati senza dover sostenere le spese per il loro mantenimento. In effetti, l’Italia è l’unico grande paese occidentale che è riuscito a fare a meno di un sussidio di disoccupazione generalizzato, scaricandone il peso sulle famiglie. In Italia, a differenza degli altri paesi, ben pochi sono davvero disoccupati, anche se nelle statistiche appaiono come tali. La maggior parte di loro sono incessantemente occupati a "sbarcare il lunario", senza chiedere niente alla "collettività" e grati a ogni padroncino che offre loro un lavoro o una commissione. La "costrizione silenziosa" ha potuto più delle leggi. L’Italia è già arrivata dove gli altri governi vogliono portare i loro paesi. Una triste avanguardia.
Senza dubbio, questa situazione rende la lotta contro il lavoro ancora più difficile che altrove, benché l’Italia possa vantare una certa tradizione nella resistenza al terrorismo del lavoro moderno: dal napoletano che secondo un clichè piuttosto simpatico risponde a chi gli offre un lavoro: "Grazie, ho già mangiato oggi", alla resistenza nelle fabbriche degli anni Settanta, dal ladro de I soliti ignoti che grida all’altro ladro: "Là ti fanno lavorare" quando questi si nasconde in un cantiere, agli innumerevoli prepensionati. L’obbligo di lavorare sembra talvolta meno profondamente interiorizzato che altrove. Un piccolo "primato civile degli italiani". Ma quando la società del lavoro impone come regola generale che ormai ognuno debba pensare da solo come sfruttarsi e come vendersi, allora diventa sempre più evidente che non si tratta solo di uscire dal lavoro salariato, dal lavoro eteronomo, dal lavoro sfruttato. Si tratta invece di una rottura categoriale con il lavoro stesso, con la necessità di trasformare ogni attività in merce, il cui unico scopo è trovare un acquirente.
E’ allora particolarmente importante abbandonare la convinzione che la diffusione del lavoro "autonomo" contenga una prospettiva di liberazione e che esso possa diventare un lavoro "autogestito" che permette agli individui di combinare l’utile con il dilettevole. Curiosamente, il principio neoliberale "ciascuno manager di se stesso" ha trovato larga diffusione – almeno quando si può bardare di dell’illusione del lavoro "creativo" - negli ambienti che intendono sfuggire al lavoro capitalistico. L’estrema flessibilità richiesta oggi dal capitale al suo materiale umano appare ad alcuni come la promessa di un lavoro non sottoposto ai tradizionali vincoli in materia di orari, condizioni, contenuti ecc., di un lavoro che si possa conciliare con le altre esigenze della propria vita ed eventualmente svolgere collettivamente e creativamente, per esempio in un centro sociale. Criticare questa illusione non significa certo rimpiangere la vecchia fabbrica con la sirena o l’ufficio di una volta; e finché perdura la necessità di lavorare, è più che legittimo cercare un lavoro che appaia più sopportabile di altri. Ma non bisogna fare di necessità virtù e credere di poter "ricodificare" per scopi liberatori la flessibilità imposta dal capitale. Il lavoro "autogestito" rimarrà sempre sottoposto a tutti i diktat del mercato e alla concorrenza con tutti gli altri fornitori della stessa merce. E la tanto decantata "intellettualità diffusa", le conoscenze e i saperi che hanno bisogno solo di un computer e non dipendono più da nessun proprietario dei mezzi di produzione, dimostrano (a parte il carattere più che dubbio di molte di queste conoscenze) solo che non si è più consegnati a un singolo padrone in carne e ossa, ma a tutto il mercato anonimo, a tutta la macchina incontrollabile della trasformazione del tempo di lavoro in valore e poi in denaro. Perfino se questo lavoro "immateriale" e autogestito fosse così diffuso come si afferma, si sarebbe comunque lontani quanto prima da ogni accesso diretto alle risorse, da ogni controllo sulle proprie condizioni di vita, da ogni decisione collettiva su che cosa ha senso produrre e cosa no. Inoltre, limitarsi ai lavori "creativi" non è una prospettiva estendibile.
Qui diventa del tutto evidente che bisogna rompere, a livello sociale, con il lavoro stesso, per poter poi ridare a tutte le attività necessarie o piacevoli, e non solo a quelle "creative", la loro autonomia fuori dallo Stato e dal mercato. Si sarà capito che gli autori del Manifesto non sono bohémien attardati che aborriscono l’attività in quanto tale. Certo, gran parte delle fatiche di oggi sono completamente inutili e nascono solo dalle esigenze del sistema di valorizzazione del lavoro. Ma anche una volta superato il lavoro, ci sarà molto da fare, in certi campi forse più di prima. Non sarà mai però per alimentare il processo di fare denaro per mezzo di denaro con la mediazione del lavoro.
La prospettiva di Krisis non è perciò neanche quella di aspettare un paradiso tecnologico dove le macchine lavorano al nostro posto e noi umani ci possiamo limitare a guardarle. Questa aspettativa sta dietro a molta critica superficiale ed "edonistica" del lavoro, che vuole ottenere tramite un atto politico (comunque altamente improbabile) che il sistema produttivo vigente conceda i suoi benefici a tutti senza esigere in cambio delle prestazioni lavorative. Anche la proposta del reddito di esistenza, quando non si limita a chiedere un mero sussidio di sopravvivenza, va in questa direzione. Ma ciò significa chiedere l’abbondanza capitalistica senza volerne pagare il prezzo, significa volere il consumo capitalistico di merci senza la produzione di merci, basata sul lavoro. Si trascura così il carattere nocivo, alienante e spesso catastrofico dell’"abbondanza" capitalistica, che per molti versi sarebbe da abolire, invece di distribuirla in quantità ancora maggiori e gratuitamente. Difficilmente la tecnica e la scienza sviluppate dal capitalismo possono essere un veicolo di emancipazione; esse non sono "neutrali".
Ma questa richiesta della cornucopia presuppone anche che il capitalismo sia tuttora florido e che si debba solo costringerlo a concedere tutto ciò che possiede ma non vuole mollare. In verità, il sistema di produzione di merci è entrato in una crisi irreversibile, perché sta rendendo superfluo quel lavoro il cui sfruttamento costituisce al contempo la sua unica ragione di esistere. Il capitalismo non è più un grado di creare un pieno impiego, ma non potrebbe neanche offrire un’abbondanza di merci senza lavoro, e sempre per lo stesso motivo: l’esaurimento della sua dinamica secolare. Ma non c’è alcun motivo per rammaricarsene e sognare un ritorno al capitalismo "sano" o "vero" degli anni Sessanta. Al contrario, bisogno cogliere questa chance storica. E’ però inutile aspettarsi qualcosa dalla sinistra classica, che ha per sempre voluto la liberazione del lavoro e non la liberazione dal lavoro. Basta guardare Rifondazione comunista che descrive l’affondamento della Fiat come una catastrofe nazionale e sfiora il ridicolo fino a chiedere la "nazionalizzazione" dei suoi resti, in accordo tacito con il principio neoliberale "privatizzare i guadagni, socializzare le perdite". E che dire dei Disobbedienti che manifestano con convinta militanza contro la chiusura degli stabilimenti Fiat, invece di rallegrarsi che la piovra che da quasi un secolo opprime, avvelena e distrugge l’Italia allenti finalmente la sua morsa? Perché non chiedono, semmai, la cassa integrazione a vita per tutti i licenziati? In verità, anche a molti ambienti "antagonisti" l’esaurirsi del lavoro fa paura. Gridano perciò "lavorare meno lavorare tutti" piuttosto che immaginarsi una società che si sia lasciata il lavoro alle spalle.
Il punto decisivo è questo: l’uscita dalla società del lavoro non è un’utopia, non è un simpatico sogno. Non si tratta di dire "no" al lavoro solo perché è sgradevole e c’è di meglio da fare (per quanto anche questo sia vero). E’ la stessa società capitalistica che sta abolendo il lavoro. Non ne ha quasi più bisogno. Nei paesi "sotto-sviluppati" almeno metà della popolazione è già "disoccupata", e quando crollerà il castello di carte delle borse mondiali la situazione nei paesi "sviluppati" non sarà molto diversa. Ma ciò che potrebbe essere una buona notizia diventa un incubo finché perdura l’obbligo di lavorare per poter mangiare. Il capitale non ha più bisogno degli uomini e mette fuori corso interi paesi. Così facendo distrugge anche se stesso. Ma questa uscita dal capitalismo e dalla società del lavoro non è un’uscita pacifica, una gioiosa trasformazione, il passaggio a un’altra civiltà migliore. Nelle attuali condizioni, questa via porta alla barbarie globale. Venir sfruttati oggi diventa quasi un privilegio e assicura almeno la sopravvivenza. A sempre più persone nel mondo, il capitale lancia un messaggio ancora più duro: "Siete superflui, non ci interessate neanche per sfruttarvi, perché non rende abbastanza. Per noi, potete anche andare sulla luna. Sbrogliatevela da soli, basta che non ci chiediate niente".
In questa situazione, forse non è neanche più tanto necessario "combattere il lavoro". Ci sta già pensando il sistema produttore di merci. Il compito che si pone è allora un altro: trovare una forma di vita sociale basata non più sul lavoro, ma su decisioni comuni sull’impiego delle risorse disponibili. L’addio al lavoro non è un’opzione che si possa scegliere, nel caso in cui gli avversari del lavoro offrano davvero alternative che convincano tutto il mondo. La demolizione del lavoro è già avvenuta in buona parte del mondo, ed è in atto nel resto; l’unica questione è sapere che cosa verrà dopo. Prima si smette di voler restaurare il lavoro e ci si mette a costruire delle alternative, meglio è. Non si tratta però semplicemente di ribattezzare "attività libera" ciò che adesso si chiama "lavoro". Bisogna reintegrare le sfere separate della vita, ritornare a una riproduzione complessiva della società, in cui la produzione "economica" non è un fattore a sé alla cui presunta razionalità vengono subordinati tutti gli altri fattori. Un tale superamento del lavoro non è realizzabile con qualche artifizio di ingegneria sociale, ma presuppone un cambiamento dei paradigmi di civiltà. Un cambiamento, tuttavia, che non può situarsi in un lontano futuro, ma da cui dipende giorno per giorno il destino di una parte crescente dell’umanità.
1. In Italia sono usciti finora: Robert Kurz, L’onore perduto del lavoro, manifestolibri, Roma 1994; Robert Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, manifestolibri, Roma 1997; Ernst Lohoff, La fine del proletariato come inzio della rivoluzione, in "Invarianti", n. 29 e n.30, 1997; Robert Kurz, Sein e Design, in "Agalma", n. 1, 2000. Altri testi importanti di Robert Kurz sono Der Kollaps der Modernisierung, Eichborn, Francoforte 1991 (sul crollo dell’Urss e la crisi dell’Occidente); Schwarzbuch Kapitalismus, Eichborn, Francoforte 1999 (una storia del capitalismo); Marx lesen, Eichborn, Francoforte 2000 (un’antologia commentata di scritti di Marx); Weltordnungskrieg, Horlemann, Bad Honnef 2002 (sul nuovo disordine mondiale). Nel 1999 è uscito, insieme con il Manifesto, anche il volume Feierabend! – Elf Attacken gegen die Arbeit (konkret Lieraturverlag, Amburgo) con saggi di diversi autori contro il lavoro; gli altri due saggi della presente traduzione sono contenuti in questo volume. L’editore Horlemann ha inoltre pubblicato di Peter Klein, Die Illusion von 1917, 1992 (sulla Rivoluzione russa); di Ernst Lohoff, Der dritte Weg in den Burgerkrieg, 1996 (sulla guerra in Yuogoslavia); di Roswitha Scholz Das Geschelcht des Kapitalismus, 2000 (su capitalismo e patriarcato). Numerosi testi di Krisis, anche in italiano, possono essere consultati sul sito http://www.krisis.org/.
2. Il lavoro vivo, dopo che è servito a produrre una merce, "esiste" nella merce sotto forma accumulata, appunto "morta". Se per produrre una merce, e tutti i suoi ingredienti, sono state necessarie venti ore di lavoro, questa merce "rappresenta" venti ore di lavoro morto. Mentre il lavoro vivo sparisce nell’atto della sua esecuzione, il lavoro morto – lavoro passato, lavoro accumulato – continua a esistere, in modo assai particolare, in quanto "valore" della merce.
3. Poiché oggi esiste una grande confusione a questo riguardo, è importante sottolineare che il lavoro "astratto", nel senso che dà Marx a questo concetto, non ha niente a che fare con il lavoro "immateriale" o "virtuale". Per Marx, qualsiasi lavoro che produce merci ha due lati: uno astratto, in quanto semplice tempo di lavoro indifferenziato che si traduce in denaro, e uno concreto, come risultato – materiale o immateriale – dell’attività. Questo lato concreto del lavoro è necessariamente subordinato a quello astratto: né è il semplice "portatore". Anche i servizi o il lavoro informatico hanno un lato "concreto", e anche quello in fabbrica o in agricoltura o negli ospedali ha un lato "astratto". E’ sempre stato così in condizioni capitalistiche; da quel punto di vista, il lavoro oggi non è "più astratto" di quanto lo fosse cento anni fa.
4. Le parole esistevano, ma designavano degli ambiti concreti e limitati della vita.
5. Alcuni piccoli riferimenti alla situazione italiana sono stati introdotti dai traduttori, d’accordo con gli autori.
Il Gruppo Krisis, la critica del lavoro
e il "primato civile degli italiani"
Anselm Jappe
Nella società del lavoro, il lavoro sta diventando raro come l’aria respirabile nella città. Eppure si esige da tutti di lavorare, se vogliono vivere. Ogni giorno vengono lanciate nuove proposte su come si potrebbe ritornare al pieno impiego. Nessuna ha mai funzionato, né potrà mai funzionare. Né la licenza all’illimitato sfruttamento della forza-lavoro, né il tentativo di sottomettere il capitale globalizzato alla ferula dello Stato riescono a invertire questa tendenza. Altri hanno preso atto dell’impossibilità di ricostituire la società del lavoro di una volta e cercano di salvare le condizioni di vita attuali anche per coloro che non trovano più lavoro. Vogliono fare buon viso a cattiva sorte. Quasi nessuno mette in dubbio il lavoro come principio fondante della società in cui viviamo. Cosa che fa invece il gruppo tedesco Krisis nel Manifesto contro il lavoro. Ma qual è il punto di vista da cui parte una critica così radicale?
Da quasi vent’anni, il gruppo Krisis, riunito intorno all’omonima rivista, sta sviluppando in Germania una delle critiche più articolate, innovatrici e radicali della società capitalistica contemporanea. L’ha fatto al di fuori delle università e delle cappelle grandi e piccole della sinistra: tramite la rivista "Krisis", giunta al ventiseiesimo numero, per mezzo di articoli e libri, alcuni dei quali – soprattutto quelli di Robert Kurz, l’autore più noto del gruppo – hanno raggiunto una notevole diffusione, e attraverso seminari, conferenze e incontri [1]. Partiti originariamente da una posizione marxista ancora relativamente tradizionale, gli autori di Krisis sono approdati man mano a una critica globale della società della merce che include anche quasi tutti i suoi presunti oppositori. Ecco alcuni dei capisaldi di questa critica.
Da più di due secoli, cioè da quando il capitalismo industriale è diventato il modo di produzione prevalente, si discute solo della distribuzione dei suoi presunti benefici, senza più criticare la sua stessa natura. Per le molte anime del movimento operaio si trattava di ottenere, tramite la lotta di classe oppure tramite riforme, che il plusvalore andasse a coloro che lo producono e di trasformare gli operai in cittadini a pieno titolo. Nel frattempo, tutti, a destra e a sinistra, nei paesi dell’economia di mercato come in quelli che si chiamavano "socialisti", avevano completamente interiorizzato i presupposti dello sfruttamento capitalistico, cioè il processo per cui l’attività produttiva diventa lavoro: il suo lato concreto è allora secondario rispetto al suo lato di lavoro astratto. In quanto "lavoro", l’attività è una mera quantità di tempo indifferenziato speso per produrre una merce di cui non contano né l’utilità né la bellezza, ma solo la capacità di trasformarsi in denaro, cioè di vendersi sul mercato. Il valore di questa merce si misura solo sul lavoro morto che contiene, che permette a sua volta di accumulare una maggiore quantità di lavoro morto sotto forma di denaro e capitale, in un processo senza fine e senza altro senso che quello di perpetuare se stesso [2]. Marx aveva criticato il lavoro astratto e la merce, il valore economico e il denaro. Ma la sua critica delle categorie di base del capitalismo è stata ben presto dimenticata dai suoi epigoni, a favore del tentativo – ugualmente prefigurato nei suoi scritti – di organizzare meglio e distribuire più "giustamente" la produzione di questi presupposti che ormai passavano per "naturali", e non più per il risultato di una particolare organizzazione sociale.
La società basata sulla trasformazione tautologica di lavoro vivo in denaro non può però durare in eterno. Fin dall’inizio essa contiene in sé delle contraddizioni insanabili: esiste solo grazie all’assorbimento di lavoro vivo, che è l’unica fonte di valore e plusvalore, ma al contempo la concorrenza spinge a un incessante aumento della produttività tramite la tecnologia e dunque a una riduzione dell’uso di lavoro vivo. I produttori privati hanno bisogno di delegare allo Stato tutte le spese infrastrutturali, ma esso soffoca sotto il loro peso crescente. La produzione di merci vorrebbe prescindere da ogni contenuto e considerare ogni cosa solo in quanto mera forma, cioè come pura espressione quantitativa della forma merce, ma viene sempre raggiunta di nuovo dal contenuto (per esempio nella crisi ecologica: dal punto di vista della forma merce un cavallo e un’automobile sono la stessa cosa, se rappresentano la stessa quantità di denaro; dal punto di vista del contenuto non sono affatto uguali e producono conseguenze assai diverse).
La crisi che la produzione capitalistica di merci porta da sempre nel suo seno è stata rimandata più volte grazie all’espansione assoluta della produzione – soprattutto con il modello "fordista-keynesiano", basato sull’industria automobilistica, la piena occupazione, il welfare e un forte ruolo dello Stato. Ma la crisi del meccanismo di valorizzazione del capitale è diventata palese dopo il 1970. Attualmente, solo il gigantesco parcheggio del capitale inutilizzabile nei reami fittizi delle borse mondiali maschera ancora la quasi totale perdita di sostanza che il modo di produzione capitalistico ha già subito. Ma dopo il crollo dei settori più deboli del sistema mondiale di produzione di merci avvenuto negli anni Ottanta e Novanta, dai paesi "socialisti" dell’Est a quelli del Sud, fino ai paesi "emergenti" in America Latina e in Estremo Oriente, anche i centri della produzione capitalistica stanno ormai entrando in una fase di declino inarrestabile. Un declino che si manifesta non solo con tassi-record di disoccupazione e crescita zero dell’economia, astronomici debiti pubblici e privati e colossali fallimenti d’imprese, ma anche con l’esaurirsi del ruolo dello Stato nazionale, con il graduale abbandono dei modesti standard di civiltà raggiunti nei campi dell’educazione, della sanità, della sicurezza ecc., con la distruzione delle basi naturali della vita e con la crescente incapacità di molti individui di sopportare le attuali condizioni di esistenza.
Nel suo cammino teorico, il Gruppo Krisis è partito dal nucleo dimenticato della teoria di Marx – la critica di merce e valore, lavoro astratto e denaro – per comprendere man mano quanto la tradizionale lotta di classe per la riappropriazione del plusvalore fosse ancora parte integrante del sistema che non sapeva trascendere. Nel suo tragitto iconoclastico – in rapporto tanto alla coscienza dominante quanto a quella d’opposizione – Krisis doveva necessariamente arrivare a smantellare un’altra categoria sacra della modernità: quella del "lavoro". La sua critica non poteva riguardare solo il lavoro sfruttato, il lavoro salariato, il lavoro alienato, e neanche solo il lavoro astratto [3]. Doveva mettere in discussione il lavoro tout court. Non certo per negare l’attività. Ma per negare la presunta necessità di essere attivi, non in vista di un fine concreto la cui utilità è stata coscientemente deliberata, ma per produrre al solo scopo di produrre. In verità, il capitalismo impedisce tante attività quante ne impone: condanna molte persone a rinunciare a sfruttare le risorse che hanno per le mani, solo perché non sono più "redditizie". Basta pensare agli innumerevoli contadini del Sud del mondo a cui il mercato mondiale impedisce di continuare la loro attività millenaria.
Le società precapitalistiche non conoscevano neanche il concetto di "lavoro", né quello di "economia" [4]. Le attività produttive facevano parte dell’insieme della vita sociale e non erano organizzate come una sfera a parte. Perciò il concetto di "lavoro" e quello di "lavoro astratto" sono in realtà identici. Il lavoro, anche quello cosiddetto "concreto", costituisce sempre un’astrazione che isola un aspetto della vita umana dal suo contesto, opponendo le attività produttive alla riproduzione domestica, alla cultura, al gioco, ai riti ecc. Non si può perciò opporre il "buon" lavoro concreto al "cattivo" lavoro astratto, perché non possono che esistere, come le due facce dello stesso "lavoro". La produzione di più valori d’uso possibili può essere altrettanto tautologica quanto quella di valore di scambio.
Neanche si tratta di esaltare il "lavoro creativo", il lavoro artistico o intellettuale (o presunto tale) per opporlo all’avvilente lavoro produttivo di tipo tradizionale. Da diversi anni alcuni teorici, per ingenuità o per cinismo, portano avanti un discorso secondo cui il possesso di un computer e di un sapere professionale (per di più di dubbia natura) "incorporato" nel proprio cervello basterebbero per sottrarsi alla tirannia del lavoro capitalistico. Qui una certa retorica post-operaista si incontra curiosamente con l’elogio neoliberale (già alquanto stantio) delle meraviglie della new economy e della microimprenditorialità. Gli scritti di questo volume seguono una traccia ben diversa: non bisogna mettere in discussione solo i contenuti del lavoro (interessante e creativo oppure noioso e imposto), né la sola questione dello sfruttamento e delle gerarchie (per quanto rimangano, naturalmente, importanti), ma soprattutto il ruolo del lavoro come forma-base della vita sociale: ogni attività è permessa, anzi richiesta sotto forma di "lavoro", se riesce a diventare un prodotto vendibile, mentre la migliore o più utile delle attività, che però non si vende, non è un "lavoro" e dunque non ha diritto a esistere, se non come "hobby" negli spazi sempre più piccoli lasciati liberi dal terrorismo del lavoro.
Vi erano dunque buoni motivi per abbandonare il più ristretto terreno dell’elaborazione teorica e tentare un’offensiva pubblica su vasta scala. Nel 1999 Krisis lanciò dunque il Manifesto; esso non pretende apportare novità teoriche rispetto agli altri testi del gruppo che mettono a nudo il meccanismo del lavoro, ma cerca di riassumerli nel modo più efficace e fruibile possibile. Fu pubblicato come brochure autoprodotta e venne presentato durante molti dibattiti, accolto dalle proteste, spesso vivaci dei marxisti "tradizionali". Da allora è stato pubblicato in Brasile (il paese, fuori dalla Germania, dove le tesi di Krisis hanno trovato finora più eco), in Francia, in Spagna, in Portogallo e in Messico; su internet sono disponibili traduzioni in persiano, russo e inglese. La traduzione italiana, benché eseguita rapidamente, è rimasta a lungo inedita. E’ stata rifiutata da una dozzina di editori, e quasi esplicitamente per il contenuto: quando viene messo in discussione il lavoro, gli anarchici ortodossi e gli editori commerciali, i leninisti e gli alternativi, i liberali e gli editori "antagonisti" hanno ciascuno qualcosa da obiettare.
La diffusione internazionale di questo pamphlet è un buon segno in un momento in cui i telespettatori di tutti i paesi sono incitati, con desolante monotonia, a cercare dei "posti di lavoro" che non trovano più. Tuttavia, un certo limite del Manifesto risiede nei suoi numerosi riferimenti a delle particolarità della situazione tedesca [5]. Sia per comprendere meglio questi riferimenti, sia per riconoscere, tramite il confronto, i tratti distintivi del ramo italiano della società mondiale del lavoro, è utile tenere conto di quanto segue.
Dopo la Seconda guerra mondiale fu realizzato in Germania un sistema di protezione sociale assai sviluppato (le cui origini, come si sa, risalgano però alla lotta di Bismarck contro la socialdemocrazia). Chi viene licenziato dopo aver lavorato almeno un anno (inclusi i lavori temporanei finanziati dallo Stato stesso come misure contro la disoccupazione) riceve per un anno il 60% dell’ultimo stipendio (inizialmente la quota era più alta, ma è stata abbassata più volte negli anni Novanta), poi per diversi anni una quota minore, se manca di altre risorse. In compenso deve presentarsi regolarmente all’ufficio di collocamento. Se l’ufficio di collocamento gli propone un lavoro, può rifiutare solo se questo lavoro è "inaccettabile" perché troppo al di sotto della sua qualifica o del suo ultimo salario, troppo lontano dalla sua residenza ecc. Se rifiuta senza motivo "valido" perde il sussidio. I criteri per sapere quali lavori sono "accettabili", e per chi, sono stati ridefiniti più volte in senso sempre più restrittivo; inoltre adesso viene chiesto ai disoccupati di dimostrare che si impegnano attivamente nella ricerca di un lavoro. Lo scopo è sempre quello di escludere più persone possibili da questo sussidio.
Chi non lo riceve, e comunque ogni persona che non abbia risorse proprie, può domandare il "sussidio sociale", che in cambio di umilianti pratiche burocratiche per dimostrare il proprio stato di bisogno permette una modesta esistenza (bisogna tener conto del fatto che quasi nessuno in Germania abita più con i genitori dopo i vent’anni e che un’abitazione propria, per quanto piccola, è considerata un diritto dell’uomo). Chi riceve il "sussidio sociale" può essere obbligato a svolgere quasi gratuitamente dei lavori "socialmente utili", per esempio pulire i parchi e cimiteri. Una minaccia che a lungo è rimasta piuttosto teorica, ma che da qualche anno gli uffici preposti a questa moderna amministrazione della povertà stanno spesso mettendo in pratica – più a scopo deterrente che con finalità economiche.
Da quando è uscito il Manifesto, la volontà politica di spingere i disoccupati tedeschi a lavorare a ogni prezzo si è ancora notevolmente rafforzata, e le proposte di una commissione governativa appositamente istituita per "riformare il mercato del lavoro" sono state per mesi al centro di un acceso dibattito. Ma a giudizio di tanti opinion maker tutto questo non è ancora sufficiente e bisogna agitare la sferza in modo ancora più brutale. Mentre una parte della società tedesca rimane ligia all’"etica protestante" del lavoro, chiede di lavorare perché non sa che altro fare nella vita e disprezza i "parassiti", un’altra parte, più piccola, ha scoperto che spesso è più conveniente campare più o meno bene con questi sussidi statali piuttosto che eseguire lavori ingrati per un salario magari appena superiore ai sussidi (bisogna tener conto che una famiglia può ricevere fino a 1500 euro al mese di "sussidio sociale", e che molti lo integrano con lavori al nero; il sussidio di disoccupazione invece dipende dall’ultimo stipendio). Per la disperazione del capitale, non è facile convincere persone in queste condizioni a lustrare le scarpe ai benestanti o a farsi ogni giorno quattro ore di viaggio. Dall’altra parte, il costo del sistema diventa proibitivo quando ci sono stabilmente più di quattro milioni di disoccupati. Nella passata epoca di prosperità e di pacificazione sociale, il capitale sembrava aver dimenticato una delle regole di base del capitalismo, freddamente annunciata alla fine del Settecento dagli economisti inglesi: bisogna mettere i poveri davanti all’alternativa di lavorare in qualsiasi condizione oppure di morire di fame. La chiamavano la "costrizione silenziosa". Ecco perché le autorità tedesche cercano di escogitare sempre nuovi mezzi per costringere i disoccupati ad accettare qualsiasi lavoro oppure a rinunciare agli aiuti pubblici. Un vero ricatto, perché in generale i disoccupati tedeschi sono davvero senza lavoro (il settore "informale" esiste, ma molto meno che in Italia), né possono contare molto sulle famiglie.
Anche negli altri paesi europei settentrionali, la disoccupazione sullo smantellamento dello Stato sociale occupa un posto centrale nella vita politica. Tuttavia, vi rimane ancora qualcosa da difendere, e le resistenze sono numerose. Un osservatore critico come Krisis sa che il welfare è sempre servito all’integrazione del materiale umano nella società capitalistica; inoltre, diversamente dal riformismo filo-statalista come viene professato da Attac o da "Le monde diplomatique", Krisis non si fa nessuna illusione che si possa bloccare la crisi fondamentale della società delle merci e ritornare all’epoca aurea del capitalismo con un semplice "intervento politico". Tuttavia, Krisis riconosce che la distruzione attuale dello Stato sociale non farà altro che gettare buona parte della popolazione nella barbarie di una concorrenza cannibalizzata che allontana sempre di più ogni prospettiva di emancipazione.
In Italia, come si sa, le cose stanno diversamente. Da sempre laboratorio per nuove tecniche di dominazione sociale che combinano l’arcaico e il più moderno, l’Italia ha preso nella seconda metà del Novecento una strada particolare anche per quanto riguarda le tecniche per imporre il lavoro. La grande diffusione del precariato e del lavoro nero spinge in modo assai efficace gli individui ad accettare qualsiasi lavoro. Tutto ciò che in Francia, in Germania o in Inghilterra i governi cercano ancora di introdurre, tra mille difficoltà, in Italia purtroppo è da sempre realtà per buona parte della popolazione: una forza-lavoro oltremodo "flessibile", che accetta, soprattutto se è giovane, meridionale o immigrata o se deve fare la "gavetta", di lavorare per salari minimi o anche gratis (nella speranza di una futura assunzione), di lavorare solo quando il suo "datore di lavoro" ne ha effettivamente bisogno, di poter essere licenziata da un momento all’altro e che si rassegna alla pratica del lavoro interinale e dei salari regionalmente differenziati. Come si sa, milioni di italiano considerano una fortuna anche un lavoro che si trova molto al di sotto degli standard legali in materia di retribuzione, sicurezza, orari, igiene.
I dipendenti regolari, pubblici o privati, spesso sono ben difesi in Italia; per citare un esempio attuale, le difficoltà incontrate nella "riforma" dell’articolo 18 sul "licenziamento per giusta causa" dimostrano che perfino un governo come quello di Berlusconi non osa sfidare troppo i sindacati. Ma coloro che hanno un tale status da difendere sono in numero sempre minore, fino a ridursi a una vera e propria "aristocrazia operaia" (o impiegatizia). Nel contempo crescono silenziosamente, senza bisogno di iniziative del governo e di battaglie con i sindacati, tutt’al più rilevate dagli immancabili rapporti annuali del Censis, quelle forme "atipiche" di lavoro con cui l’Italia si adegua, più rapidamente di molti altri paesi, al capitalismo post-moderno: a parte il settore informale, cresce soprattutto il lavoro pseudo-autonomo. Gli stessi servizi che prima venivano eseguiti da salariati adesso sono affidati a lavoratori "autonomi" o micro-imprenditori (il cosiddetto outsourcing). Questa tendenza è globale, ma l’Italia è uno dei pochi paesi dove i lavoratori autonomi sono già più numerosi dei lavoratori dipendenti. Per sopravvivere sul mercato, in un regime di concorrenza spietata, questi lavoratori "autonomi" sono spesso condannati a infliggersi livelli di autosfruttamento e condizioni di lavoro che nessun proletario classico avrebbe accettato; per di più debbono cercare ogni giorno di vendere la loro merce e assumersi tutti i rischi della loro "indipendenza".
In Italia, più ancora che altrove, il fatto di avere un lavoro, o un "buon" lavoro, è considerato segno di superiorità individuale, glorificando tutti i mezzi che portano al successo e colpevolizzando tutti coloro di cui il mercato del lavoro non ha più bisogno. Già adesso, l’Italia è una preoccupante dimostrazione di come una società capitalistica sviluppata possa riuscire a vivere con un altissimo numero di disoccupati senza dover sostenere le spese per il loro mantenimento. In effetti, l’Italia è l’unico grande paese occidentale che è riuscito a fare a meno di un sussidio di disoccupazione generalizzato, scaricandone il peso sulle famiglie. In Italia, a differenza degli altri paesi, ben pochi sono davvero disoccupati, anche se nelle statistiche appaiono come tali. La maggior parte di loro sono incessantemente occupati a "sbarcare il lunario", senza chiedere niente alla "collettività" e grati a ogni padroncino che offre loro un lavoro o una commissione. La "costrizione silenziosa" ha potuto più delle leggi. L’Italia è già arrivata dove gli altri governi vogliono portare i loro paesi. Una triste avanguardia.
Senza dubbio, questa situazione rende la lotta contro il lavoro ancora più difficile che altrove, benché l’Italia possa vantare una certa tradizione nella resistenza al terrorismo del lavoro moderno: dal napoletano che secondo un clichè piuttosto simpatico risponde a chi gli offre un lavoro: "Grazie, ho già mangiato oggi", alla resistenza nelle fabbriche degli anni Settanta, dal ladro de I soliti ignoti che grida all’altro ladro: "Là ti fanno lavorare" quando questi si nasconde in un cantiere, agli innumerevoli prepensionati. L’obbligo di lavorare sembra talvolta meno profondamente interiorizzato che altrove. Un piccolo "primato civile degli italiani". Ma quando la società del lavoro impone come regola generale che ormai ognuno debba pensare da solo come sfruttarsi e come vendersi, allora diventa sempre più evidente che non si tratta solo di uscire dal lavoro salariato, dal lavoro eteronomo, dal lavoro sfruttato. Si tratta invece di una rottura categoriale con il lavoro stesso, con la necessità di trasformare ogni attività in merce, il cui unico scopo è trovare un acquirente.
E’ allora particolarmente importante abbandonare la convinzione che la diffusione del lavoro "autonomo" contenga una prospettiva di liberazione e che esso possa diventare un lavoro "autogestito" che permette agli individui di combinare l’utile con il dilettevole. Curiosamente, il principio neoliberale "ciascuno manager di se stesso" ha trovato larga diffusione – almeno quando si può bardare di dell’illusione del lavoro "creativo" - negli ambienti che intendono sfuggire al lavoro capitalistico. L’estrema flessibilità richiesta oggi dal capitale al suo materiale umano appare ad alcuni come la promessa di un lavoro non sottoposto ai tradizionali vincoli in materia di orari, condizioni, contenuti ecc., di un lavoro che si possa conciliare con le altre esigenze della propria vita ed eventualmente svolgere collettivamente e creativamente, per esempio in un centro sociale. Criticare questa illusione non significa certo rimpiangere la vecchia fabbrica con la sirena o l’ufficio di una volta; e finché perdura la necessità di lavorare, è più che legittimo cercare un lavoro che appaia più sopportabile di altri. Ma non bisogna fare di necessità virtù e credere di poter "ricodificare" per scopi liberatori la flessibilità imposta dal capitale. Il lavoro "autogestito" rimarrà sempre sottoposto a tutti i diktat del mercato e alla concorrenza con tutti gli altri fornitori della stessa merce. E la tanto decantata "intellettualità diffusa", le conoscenze e i saperi che hanno bisogno solo di un computer e non dipendono più da nessun proprietario dei mezzi di produzione, dimostrano (a parte il carattere più che dubbio di molte di queste conoscenze) solo che non si è più consegnati a un singolo padrone in carne e ossa, ma a tutto il mercato anonimo, a tutta la macchina incontrollabile della trasformazione del tempo di lavoro in valore e poi in denaro. Perfino se questo lavoro "immateriale" e autogestito fosse così diffuso come si afferma, si sarebbe comunque lontani quanto prima da ogni accesso diretto alle risorse, da ogni controllo sulle proprie condizioni di vita, da ogni decisione collettiva su che cosa ha senso produrre e cosa no. Inoltre, limitarsi ai lavori "creativi" non è una prospettiva estendibile.
Qui diventa del tutto evidente che bisogna rompere, a livello sociale, con il lavoro stesso, per poter poi ridare a tutte le attività necessarie o piacevoli, e non solo a quelle "creative", la loro autonomia fuori dallo Stato e dal mercato. Si sarà capito che gli autori del Manifesto non sono bohémien attardati che aborriscono l’attività in quanto tale. Certo, gran parte delle fatiche di oggi sono completamente inutili e nascono solo dalle esigenze del sistema di valorizzazione del lavoro. Ma anche una volta superato il lavoro, ci sarà molto da fare, in certi campi forse più di prima. Non sarà mai però per alimentare il processo di fare denaro per mezzo di denaro con la mediazione del lavoro.
La prospettiva di Krisis non è perciò neanche quella di aspettare un paradiso tecnologico dove le macchine lavorano al nostro posto e noi umani ci possiamo limitare a guardarle. Questa aspettativa sta dietro a molta critica superficiale ed "edonistica" del lavoro, che vuole ottenere tramite un atto politico (comunque altamente improbabile) che il sistema produttivo vigente conceda i suoi benefici a tutti senza esigere in cambio delle prestazioni lavorative. Anche la proposta del reddito di esistenza, quando non si limita a chiedere un mero sussidio di sopravvivenza, va in questa direzione. Ma ciò significa chiedere l’abbondanza capitalistica senza volerne pagare il prezzo, significa volere il consumo capitalistico di merci senza la produzione di merci, basata sul lavoro. Si trascura così il carattere nocivo, alienante e spesso catastrofico dell’"abbondanza" capitalistica, che per molti versi sarebbe da abolire, invece di distribuirla in quantità ancora maggiori e gratuitamente. Difficilmente la tecnica e la scienza sviluppate dal capitalismo possono essere un veicolo di emancipazione; esse non sono "neutrali".
Ma questa richiesta della cornucopia presuppone anche che il capitalismo sia tuttora florido e che si debba solo costringerlo a concedere tutto ciò che possiede ma non vuole mollare. In verità, il sistema di produzione di merci è entrato in una crisi irreversibile, perché sta rendendo superfluo quel lavoro il cui sfruttamento costituisce al contempo la sua unica ragione di esistere. Il capitalismo non è più un grado di creare un pieno impiego, ma non potrebbe neanche offrire un’abbondanza di merci senza lavoro, e sempre per lo stesso motivo: l’esaurimento della sua dinamica secolare. Ma non c’è alcun motivo per rammaricarsene e sognare un ritorno al capitalismo "sano" o "vero" degli anni Sessanta. Al contrario, bisogno cogliere questa chance storica. E’ però inutile aspettarsi qualcosa dalla sinistra classica, che ha per sempre voluto la liberazione del lavoro e non la liberazione dal lavoro. Basta guardare Rifondazione comunista che descrive l’affondamento della Fiat come una catastrofe nazionale e sfiora il ridicolo fino a chiedere la "nazionalizzazione" dei suoi resti, in accordo tacito con il principio neoliberale "privatizzare i guadagni, socializzare le perdite". E che dire dei Disobbedienti che manifestano con convinta militanza contro la chiusura degli stabilimenti Fiat, invece di rallegrarsi che la piovra che da quasi un secolo opprime, avvelena e distrugge l’Italia allenti finalmente la sua morsa? Perché non chiedono, semmai, la cassa integrazione a vita per tutti i licenziati? In verità, anche a molti ambienti "antagonisti" l’esaurirsi del lavoro fa paura. Gridano perciò "lavorare meno lavorare tutti" piuttosto che immaginarsi una società che si sia lasciata il lavoro alle spalle.
Il punto decisivo è questo: l’uscita dalla società del lavoro non è un’utopia, non è un simpatico sogno. Non si tratta di dire "no" al lavoro solo perché è sgradevole e c’è di meglio da fare (per quanto anche questo sia vero). E’ la stessa società capitalistica che sta abolendo il lavoro. Non ne ha quasi più bisogno. Nei paesi "sotto-sviluppati" almeno metà della popolazione è già "disoccupata", e quando crollerà il castello di carte delle borse mondiali la situazione nei paesi "sviluppati" non sarà molto diversa. Ma ciò che potrebbe essere una buona notizia diventa un incubo finché perdura l’obbligo di lavorare per poter mangiare. Il capitale non ha più bisogno degli uomini e mette fuori corso interi paesi. Così facendo distrugge anche se stesso. Ma questa uscita dal capitalismo e dalla società del lavoro non è un’uscita pacifica, una gioiosa trasformazione, il passaggio a un’altra civiltà migliore. Nelle attuali condizioni, questa via porta alla barbarie globale. Venir sfruttati oggi diventa quasi un privilegio e assicura almeno la sopravvivenza. A sempre più persone nel mondo, il capitale lancia un messaggio ancora più duro: "Siete superflui, non ci interessate neanche per sfruttarvi, perché non rende abbastanza. Per noi, potete anche andare sulla luna. Sbrogliatevela da soli, basta che non ci chiediate niente".
In questa situazione, forse non è neanche più tanto necessario "combattere il lavoro". Ci sta già pensando il sistema produttore di merci. Il compito che si pone è allora un altro: trovare una forma di vita sociale basata non più sul lavoro, ma su decisioni comuni sull’impiego delle risorse disponibili. L’addio al lavoro non è un’opzione che si possa scegliere, nel caso in cui gli avversari del lavoro offrano davvero alternative che convincano tutto il mondo. La demolizione del lavoro è già avvenuta in buona parte del mondo, ed è in atto nel resto; l’unica questione è sapere che cosa verrà dopo. Prima si smette di voler restaurare il lavoro e ci si mette a costruire delle alternative, meglio è. Non si tratta però semplicemente di ribattezzare "attività libera" ciò che adesso si chiama "lavoro". Bisogna reintegrare le sfere separate della vita, ritornare a una riproduzione complessiva della società, in cui la produzione "economica" non è un fattore a sé alla cui presunta razionalità vengono subordinati tutti gli altri fattori. Un tale superamento del lavoro non è realizzabile con qualche artifizio di ingegneria sociale, ma presuppone un cambiamento dei paradigmi di civiltà. Un cambiamento, tuttavia, che non può situarsi in un lontano futuro, ma da cui dipende giorno per giorno il destino di una parte crescente dell’umanità.
1. In Italia sono usciti finora: Robert Kurz, L’onore perduto del lavoro, manifestolibri, Roma 1994; Robert Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, manifestolibri, Roma 1997; Ernst Lohoff, La fine del proletariato come inzio della rivoluzione, in "Invarianti", n. 29 e n.30, 1997; Robert Kurz, Sein e Design, in "Agalma", n. 1, 2000. Altri testi importanti di Robert Kurz sono Der Kollaps der Modernisierung, Eichborn, Francoforte 1991 (sul crollo dell’Urss e la crisi dell’Occidente); Schwarzbuch Kapitalismus, Eichborn, Francoforte 1999 (una storia del capitalismo); Marx lesen, Eichborn, Francoforte 2000 (un’antologia commentata di scritti di Marx); Weltordnungskrieg, Horlemann, Bad Honnef 2002 (sul nuovo disordine mondiale). Nel 1999 è uscito, insieme con il Manifesto, anche il volume Feierabend! – Elf Attacken gegen die Arbeit (konkret Lieraturverlag, Amburgo) con saggi di diversi autori contro il lavoro; gli altri due saggi della presente traduzione sono contenuti in questo volume. L’editore Horlemann ha inoltre pubblicato di Peter Klein, Die Illusion von 1917, 1992 (sulla Rivoluzione russa); di Ernst Lohoff, Der dritte Weg in den Burgerkrieg, 1996 (sulla guerra in Yuogoslavia); di Roswitha Scholz Das Geschelcht des Kapitalismus, 2000 (su capitalismo e patriarcato). Numerosi testi di Krisis, anche in italiano, possono essere consultati sul sito http://www.krisis.org/.
2. Il lavoro vivo, dopo che è servito a produrre una merce, "esiste" nella merce sotto forma accumulata, appunto "morta". Se per produrre una merce, e tutti i suoi ingredienti, sono state necessarie venti ore di lavoro, questa merce "rappresenta" venti ore di lavoro morto. Mentre il lavoro vivo sparisce nell’atto della sua esecuzione, il lavoro morto – lavoro passato, lavoro accumulato – continua a esistere, in modo assai particolare, in quanto "valore" della merce.
3. Poiché oggi esiste una grande confusione a questo riguardo, è importante sottolineare che il lavoro "astratto", nel senso che dà Marx a questo concetto, non ha niente a che fare con il lavoro "immateriale" o "virtuale". Per Marx, qualsiasi lavoro che produce merci ha due lati: uno astratto, in quanto semplice tempo di lavoro indifferenziato che si traduce in denaro, e uno concreto, come risultato – materiale o immateriale – dell’attività. Questo lato concreto del lavoro è necessariamente subordinato a quello astratto: né è il semplice "portatore". Anche i servizi o il lavoro informatico hanno un lato "concreto", e anche quello in fabbrica o in agricoltura o negli ospedali ha un lato "astratto". E’ sempre stato così in condizioni capitalistiche; da quel punto di vista, il lavoro oggi non è "più astratto" di quanto lo fosse cento anni fa.
4. Le parole esistevano, ma designavano degli ambiti concreti e limitati della vita.
5. Alcuni piccoli riferimenti alla situazione italiana sono stati introdotti dai traduttori, d’accordo con gli autori.