Le armi da fuoco come motore del progresso tecnico, la guerra come motore dell’espansione: uno sguardo indietro alle origini del lavoro astratto
Robert Kurz
E’ con tenace persistenza che si mantiene il mito
illuminista secondo il quale sistema produttore di merci della modernità
sarebbe emerso da un “processo di civilizzazione” (Norbert Elias) che, in
rottura con la cultura barbara dell’età media, sarebbe il risultato del
commercio pacifico, dell’industrioso spirito borghese e di un certo numero di
audaci scoperte scientifiche che permisero il miglioramento del benessere degli
uomini. E quale portatore di tutte queste buone cose si potrebbe considerare il
moderno “soggetto autonomo” che si sarebbe emancipato dai condizionamenti
corporativi e agrari per raggiungere la “libertà dell’individuo”. Che vergogna allora che il frutto di una tale
combinazione di pure virtù e di progressi è caratterizzato da povertà di massa,
miseria, guerre, crisi globali e dalla distruzione completa del mondo!
La natura distruttiva e assassina della società moderna ci
invita a cercare un’origine differente da quella ufficiale della favola
ideologica. Dopo che Max Weber mise in evidenza il nesso ideale tra
protestantesimo e capitalismo, l’origine della modernità è stata classificata
in maniera grossolana e per nulla critica. Con una certa dose di “astuzia
borghese” sono state occultate in grande misura le motivazioni e le fasi di
sviluppo che furono all’origine del mondo moderno, allo scopo di far risplendere
in una falsa immacolatezza l’aurora della libertà borghese e dello scatenamento
del sistema produttore di merci.
Comunque, esiste un approccio storico, opposto all’immagine
ufficiale della storia, secondo il quale la vera origine del capitalismo ai
primordi della modernità non risalerebbe in alcun modo all’espansione pacifica
dei mercati, ma sarebbe essenzialmente di natura militare-economica. E’ un
fatto che il denaro e le relazioni basate sulle merci, il commercio esterno e i
mercati, esistevano, in una scala più o meno grande, anche anticamente, ma
senza che mai apparisse l’economia di mercato totalitaria moderna. Ciò perché,
come ben vide Marx, questi scambi restavano limitati a delle “nicchie
economiche” a margine dell’economia agraria dello scambio diretto. L’idea che
il decollo di un sistema dove il denaro è un “soggetto automatico” (Marx) che
si autoriproduce, potesse non doversi esclusivamente alla rivoluzione
intellettuale del protestantesimo ma anche all’invenzione delle armi de fuoco avvenuta
ai primordi della modernità, appare anche nella ricerca di Max Weber.
Ma Weber, nella sua nota qualità di ideologo del vecchio
imperialismo germanico, non aveva ovviamente alcun interesse a precisare e
sistematizzare questi pensieri. Già nel 1913, nella sua opera "Krieg und
Kapitalismus" (Guerra e Capitalismo), Werner Sombart, specialista in
storia sociale ed economica, richiamò esplicitamente l’attenzione verso le
radici economico-militari della modernità. Ma anch’egli finì per non sviluppare
questo approccio, una volta che poco tempo dopo diverrà uno dei principali
ideologi della guerra per poi, in seguito, antisemita categorico quale era,
aderire al nazismo. Dovrà passare più di mezzo secolo prima che qualcuno
tornasse a riferirsi alla relazione tra la genesi del capitalismo e l’”economia
delle armi da fuoco”. E’ il caso dell’economista Karl Georg Zinn ("Kanonen
und Pest", "Cannoni e peste", 1989), nello spazio di lingua
tedesca, e dello specialista in storia moderna Geoffrey Parker ("Die
militärische Revolution", "La rivoluzione militare", 1990), in
quello di lingua inglese. Sebbene contengano materiale evidente, anche questi
studi non sono esenti da tratti apologetici. L’immagine rosea del mondo della
modernizzazione, trasmessa dall’illuminismo, può continuare ad offuscare la
nostra visione.
Le carenze del
materialismo storico
Si potrebbe pensare che la critica radicale della società da
parte del milieu marxista fosse destinata a recuperare e a sviluppare
l’approccio ignorato dalla teoria borghese. Fu Marx, dopo tutto, che
oltre ad aver analizzato la distruttiva logica funzionale del “soggetto
automatico” e la forma di attività separata dalle necessità implicita nel
“lavoro astratto”, tratteggiò in termini chiari
- per esempio nel capitolo sulla cosiddetta “accumulazione originaria” –
la preistoria, tutto meno che civilizzatrice, del capitalismo.
Tuttavia anche in questa descrizione le origini
economico-militari della logica del capitale rimangono sottovalutate. E il
marxismo successivo a Marx non tornò a recuperare questo approccio; la storia
preindustriale della costituzione del sistema produttore di merci disturbava
perché, nei termini della dottrina marxista, era stranamente ambigua.
C’è, infatti, una ragione nella teoria di Marx per la quale
anche il marxismo deve reprimere questo nesso tanto sgradevole agli apologeti
borghesi. Una componente centrale del materialismo storico consiste
nell’interpretare la storia come una sequenza di stadi di sviluppo “necessari”,
in cui anche al capitalismo è ascritta una “missione civilizzatrice” (Marx).
Questa costruzione ereditata dalla filosofia illuminista borghese e da Hegel,
che fu soltanto convertita in materialismo e prolungata con il socialismo, mal
si combina, tuttavia, con una storia della rispettiva fondazione che è
perfettamente anti-civilizzatrice, e in cui il capitale – come dice Marx –
venne al mondo “grondante sangue e sporcizia da tutti i pori”.
Tanto più contraddice il materialismo storico il fatto che
la logica della valorizzazione e il lavoro astratto non siano nati dallo sviluppo delle forze
produttive “nel grembo” della società agraria premoderna ma, al contrario, come
un autentico “sviluppo delle forze distruttive”, come un principio esterno che
si sovrappose in maniera soffocante sull’economia agraria dello scambio
diretto, invece di svilupparla oltre i suoi limiti.
Allo scopo di non compromettere il loro schema
storico-filosofico, anche i marxisti lasciarono nell’ombra le fasi primitive
della costituzione del capitalismo, o le dichiararono menzognere. La ragione
decisiva di questo comportamento sarebbe stata la paura di promuovere un
pensiero reazionario. Ma questa è una falsa alternativa, di quelle che sempre
tornano a nascere dalle contraddizioni dell’ideologia borghese. La mitologia
illuminista del progresso, da un lato, e il pessimismo culturale reazionario e
il romanticismo agrario, dall’altro, sono le due facce della stessa medaglia.
Entrambi questi modi di pensare hanno come base il desiderio di un’ontologia
positiva.
Se prevale l'impulso negativo ad “abbattere tutte le
condizioni in cui la natura umana è degradata” (Marx), allora non sarà
necessaria alcuna costruzione ontologica. Da qui si potrebbe concludere che i
punti essenziali del materialismo storico si applicano alla sola forma sociale
capitalista. A parte ciò, si colloca la questione di sapere come il modo di
produzione capitalista nacque dall’”economia politica delle armi da fuoco”.
Armi indegne di
cavalieri
Un giorno del XIV secolo, in un laboratorio alchemico nel
sud-est della Germania deve esserci stata una potente esplosione; una miscela
di nitrato di sodio, zolfo e altri reagenti chimici, preparata con poca
precauzione, detonò nell’aria. Il monaco avido di conoscenza che organizzò
questa esperienza si chiamava Berthold Schwarz. Anche se non sappiamo molto di
lui, quell’esplosione è stata con ogni probabilità il vero Big Bang della
modernità. I cinesi già conoscevano la composizione della polvere da sparo da
molto tempo prima e, occasionalmente, oltre l’uso per splendidi fuochi
d’artificio, la utilizzavano anche per scopi militari. Tuttavia non venne loro
il proposito di costruire, sulla base di questo esplosivo, proiettili a lunga
gittata il cui effetto fu, nel senso più vero della parola, contundente. Il
dubbio privilegio di scoprire questa applicazione fu riservato ai pii cristiani
d’Europa. La prima volta, storicamente documentata, che si fece uso delle armi
da fuoco fu nel 1334, quando il vescovo di Costanza Nicola I difese grazie ad
esse la città di Meersburg.
Così nacque l’”arma da fuoco” che fino ad oggi è l’arma
assassina più conosciuta. Questa invenzione fondamentale ebbe come prima
conseguenza la “rivoluzione militare” (Parker) che avrebbe caratterizzato
l’ascesa storica dell’occidente. Già nel medioevo si ebbe presentimento delle
conseguenze che le efficaci armi di lunga gittata avrebbero avuto per l’ordine
tradizionale della società. In
questo senso furono formulate chiare riserve ideologiche quando, intorno all’anno 1000, apparve dall’oriente la balestra
come nuova arma a lunga gittata. Il secondo Concilio Lateranense proibì nel
1129 il ricorso a quest’arma di guerra, definendola come “arma poco dignitosa
per i cavalieri”. Non fu così un caso
che da questo momento in poi la balestra divenne l’arma principale di banditi,
fuori legge e ribelle.
L’arma da fuoco ridicolizzò definitivamente in termini
militari l’orgogliosa e metallica armatura dei cavalieri. Ancora nel contesto
della guerra dei 30 anni , lo scrittore tedesco Grimmelshausen fa dire al suo
giovane "Simplicissimus"
riguardo la sua carriera da figlio di un contadino a ufficiale militare:
"Questa circostanza che mi ha reso un uomo così potente, ai nostri giorni,
è che il più infimo stalliere può uccidere con un tiro l'eroe più valoroso del
mondo; ma se la polvere non fosse stata inventata, io mi sarei trovato
probabilmente in una ben misera posizione”.
Comunque, i “tubi mangiatori di fumo” ormai non rimasero più
nelle mani di un pugno di dilettanti. Dimostrata la potenzialità della nuova tecnica di armamento, essa
divenne indispensabile. Per timore di rimanere indietro gli uni agli altri, i
piccoli e grandi sovrani si circondarono delle miracolose armi esplosive. Ormai
non c’era più Concilio che valesse. Il know-how delle nuove macchine di morte
si estese a macchia d’olio. Fu specialmente nelle città rinascimentali del nord
Italia, con la loro destrezza artigianale relativamente evoluta, che la
tecnologia delle armi da fuoco progredì più rapidamente che altrove. Tutte le
realizzazioni e tutte le scoperte di quest’epoca di nascita del mondo moderno
sono legate in un modo o nell’altro all’arte di costruire e usare i fucili.
All’inizio del XVI secolo, il poeta e scrittore italiano del
nord Antonio Cornazzano descrive il ruolo decisivo delle armi da fuoco e canta
le lodi di “Madama la bombarda, che ha per figlio il fucile. Quest’arte
diabolica che ha eliminato tutte le altre, libera ai loro nemici roccaforti, e
ognuno trema davanti ai suoi eserciti tuonanti.” (Citato da Rudolf zur Lippe,
1988, p. 37).
Così furono costruiti fucili sempre migliori e, soprattutto,
armi sempre più grandi che potessero sparare sempre più lontano. Anche i
maggiori campi d’artiglieria ebbero il diritto a nomi propri. In risposta si
sviluppò la tecnica della costruzione delle fortezze. Così il primo impeto
della modernizzazione fu identico a una corsa agli armamenti e, questo stesso
processo, si è ripetuto periodicamente fino ai nostri giorni, potendo essere
disegnato giustamente come caratteristica essenziale della modernità. Quanto
maggiori e tecnologicamente sofisticate divennero le armi e le fortificazioni,
più chiaramente si manifestò anche fino a che punto la “rivoluzione militare”
andava alterando la società.
La macchina militare
svincolata
Molto presto si arrivò alla conclusione che l’invenzione
delle armi da fuoco non si limitava a un’alterazione della tecnologia militare.
La profonda alterazione nell’ambito dell’organizzazione e della logistica della
guerra inflisse un colpo molto profondo anche all’ordine sociale vigente. Fino
ad allora, in quasi tutte le società agrarie, le forme di organizzazione civile
e militare erano state in grande misura identiche. Di regola, qualsiasi
cittadino pienamente libero costituiva anche un individuo militare con
l’obbligo di partecipare alla guerra. L’esercito si riuniva soltanto se la
rispettiva istanza suprema, nella figura di un imperatore, re, duca, console
etc, "chiamava (gli uomini) alle armi" per organizzare una spedizione
di guerra. Al di là di queste occasioni, abitualmente non esisteva alcun
apparato militare degno di questo nome. E’ vero che alcuni grandi imperi, come
quello cinese o quello tardo-romano, mantenevano eserciti più o meno numerosi
in uno stato di operatività permanente. Ma per quanto oneroso spesso fosse il
mantenimento di questa incombenza militare, essa condizionò il modo di
produzione e di vita dei comuni mortali solo in maniera superficiale.
La differenza decisiva risiede nella questione
dell’equipaggiamento. Le armi del guerriero premoderno gli appartenevano e le
usava anche quotidianamente, o le custodiva in casa. L’elmo, lo scudo e la
spada potevano praticamente essere forgiate da qualsiasi fabbro del villaggio.
E qualsiasi ragazzo che andava a pascolare il bestiame sapeva come si fabbricano
un arco e le rispettive frecce, oppure una fionda. Anche tutta la logistica
della guerra poteva essere organizzata in forma decentralizzata. Ciò
corrispondeva in tutto all’organizzazione in larga parte decentralizzata della
civiltà agraria. Il potere centrale, anche se dispotico, qui si ripercuoteva
sempre in forma attenuata sulla vita quotidiana.
Questo stato di cose dunque decadde irrimediabilmente. I
fucili e, soprattutto, i cannoni non potevano più essere prodotti in qualsiasi
villaggio, né potevano essere custoditi in casa e ancor meno potevano essere
trasportati con sé in forma abituale. L’arma assassina improvvisamente aveva
superato la scala domestica per collocarsi oltre il quadro dell’esperienza
umana. Il cannone, pertanto, si configura in un certo modo come archetipo della
modernità, ossia un utensile che comincia a dominare il suo creatore. Sorse
una nuova industria delle armi e della morte che costituì la matrice della
posteriore industrializzazione e del cui fetore cadaverico le società moderne,
incluse le democrazie del mercato mondiale dei nostri giorni, mai si
libereranno.
L’apparato militare cominciò a distaccarsi
dall’organizzazione borghese e civile della società. Il mestiere della guerra
si trasformò in una categoria professionale specializzata e l’esercito si
trasformò in un’istituzione permanente che cominciò a piegare il resto della
società al suo dominio. Geoffrey Parker lo dimostra nel suo lavoro di
investigazione: "Nel contesto di questo sviluppo, la dimensione degli
eserciti aumentò in tutta Europa, le forze armate di alcuni stati decuplicarono
tra il 1500 e il 1700, e le strategie per l’utilizzazione di questi eserciti più
grandi si fecero più ambiziose e più complesse (...) In definitiva la
rivoluzione militare accentuò in maniera spettacolare l’impatto della guerra
sulla società: con armi più numerose i costi della guerra divennero più alti, i
danni si moltiplicarono e gli eserciti maggiori disposero di amministrazioni a
fronte degli accresciuti livelli di esigenza." (Parker 1990, 20).
In questo modo, le risorse della società furono deviate
verso i fini militari in una misura senza precedenti. Una sorta di dissipazione
militare senza dubbio era già esistita in precedenza, in forma occasionale, ma
mai fu tanto duratura, né fu mai prelevato un così elevato tributo dalla
produzione sociale. Il nuovo complesso armato militare si trasformò velocemente
in un Moloch che ingoiava mostruose quantità di mezzi e al quale furono
sacrificate le migliori potenzialità sociali. In contrasto, le culture premoderne,
malgrado – o forse a causa – delle loro canzoni epiche e delle loro norme di
combattimento, apparivano ben meno orientate verso il militarismo, e le loro
guerre potevano sembrare inoffensive scaramucce.
Karl Georg Zinn a questo proposito fa un paragone poco lusinghiero per la modernità: "Rispetto allo sviluppo
della tecnica a partire dal XIV secolo, l’età media disponeva (...) di un
potere militare relativamente irrisorio. La guerra e l’armamento costituivano
un fardello molto minore nella società medievale rispetto a quella moderna. La
parte di prodotto eccedente nell’agricoltura che veniva spesa per fini
distruttivi si manteneva comparativamente più bassa nel medioevo perché in
altro modo non si sarebbero potuti ottenere gli investimenti necessari al
progresso della tecnologia agraria, né si sarebbero potute edificare tante
cattedrali, nuove città e fortificazioni urbane. Ciò che soprattutto salta agli
occhi, comparando l’età media con la modernità, è la qualità diametralmente
distinta del progresso tecnologico: innovazioni al servizio dell’agricoltura
nell’età media; difesa dello Stato e industria del lusso, accompagnata
dall’abbandono dell’agricoltura, nei tempi moderni." (Zinn 1989, 58)
"Madama la bombarda", tuttavia, non si limitò a
divorare una parte sproporzionalmente grande del prodotto sociale, ma diede
anche l’impulso decisivo all’economia monetaria che, fino ad allora, era
rimasta molto limitata. Solo per opera della crescente produttività agraria e
artigianale, tale ascesa del denaro a potere anonimo dominante non avrebbe mai
potuto aver luogo. Certo, lungo i millenni, il progresso tecnico non era mai
cessato. Ma di regola gli individui preferivano approfittare del guadagno di
produttività per avere più tempo per riposare o per aumentare i loro piaceri,
piuttosto che per dedicarsi all’accumulazione di capitale monetario. Una forma
così assurda di sviluppo delle capacità produttive poté essere imposta solo da
fuori e con la forza. Ed era la nuova macchina militare, svincolata dal
contesto della società, che offriva i migliori presupposti per una simile
impresa.
Una volta che la produzione di armi di fuoco non poteva più
essere assicurata in forma decentralizzata nel quadro di un’economia agraria e
basata sullo scambio diretto, essa doveva venir concentrata. Lo stesso valeva
per gli eserciti e gli apparati militari permanenti, i cui membri erano
ora diventati assassini professionali a tempo pieno incapaci di procurarsi da sé il
loro sostentamento. L’unico medium possibile per la riproduzione della macchina
militare svincolata dal contesto sociale era il denaro. L’astrazione
dell’apparato delle armi da fuoco in relazione ai bisogni materiali della
società corrispondeva alla forma astratta del denaro come veicolo ideale. L’economia
di guerra permanente e dei grandi eserciti diventati strutturalmente autonomi
fu, dunque, tradotta socialmente in una corrispondente espansione della
mediazione del denaro. Sebbene diversi fattori abbiano contribuito a mantenerla
e a consolidarla, l’impresa del denaro è una conseguenza della “rivoluzione
militare”.
Banchieri di guerra,
signori della guerra e mercenari
I signori della guerra dei primordi della modernità (i
condottieri), così come i loro subordinati, i semplici artiglieri e fucilieri,
furono i primi soggetti del tutto al di fuori della riproduzione naturale agraria e
che quindi avevano perduto i loro vincoli sociali. Di conseguenza, la loro
esistenza costituì il prototipo della forma-soggetto, prima forma sociale nella
storia moderna ad astrarsi nel principio universale del lavoro come risposta ai
bisogni umani.
Nelle analisi dello storico culturale Rudolf zur Lippe,
diventa evidente come i nuovi e sanguinari "artigiani della morte" si
convertirono negli archetipi del moderno lavoro salariato e della sua gestione:
“La pianificazione delle azioni belliche (...) ormai era soggetta
principalmente al calcolo dei profitti. Gli ideali dell’onore cavalleresco e
l’orgoglio corrispondente allo status sociale di ognuno non rientravano in
questo calcolo. (...) Il residuo non funzionalizzato di una postura feudale,
ossia di una relazione immediata con le persone e le cose per le quali si
lottava, andava svanendo da una generazione di ‘ultimi cavalieri’ all’altra.
(...) Nella realtà, la massa dei guerriglieri si era convertita in soldati,
cioè in percettori del soldo, e i signori della guerra erano pagati dalle casse
degli Stati e dai depositi commerciali. La prima invenzione tecnica di
un’importanza pratica decisiva fu introdotta nel campo dove cose come lavoro
astratto e salariati intercambiabili erano già esistenti da tempo: il cannone è
tecnicamente adatto a delle guerre dove l’obiettivo è l’accumulazione astratta
del capitale. (...) . Così come il numero di mercenari in una formazione militare rappresentava ormai la quantità che il committente poteva pagare, la sintesi
astratta della capacità di attacco nella macchina militare di distruzione che è
il cannone costituì una conseguenza logica." (zur Lippe 1988, 37)
La causa prima del collegamento tra l’innovazione delle armi
da fuoco e il lavoro astratto non fu, tuttavia, il vecchio capitale
commerciale, come ancora qui è suggerito nel senso di un’ontologia del
materialismo storico. Non fu la macchina di morte astratta, il cannone, che
corrispose a un interesse di accumulazione astratta e preesistente del capitale
commerciale ma, al contrario, la genesi di questa forma dell’interesse si deve
alla “rivoluzione militare” e ai processi che ne conseguirono sul piano
sociale.
A questo punto, il materialismo storico dovrebbe cominciare
a dubitare di sé stesso, visto che la sua supposizione di una “base economica”,
in questo caso la precedenza del capitale commerciale ai primordi della
modernità, non si sposa con la dialettica tra “forze produttive e rapporti di
produzione” la quale, in effetti, sarà solo un risultato tardivo del modo di
produzione capitalista. Quali forze produttive avrebbero dato origine
all’interesse astratto dell’accumulazione del capitale commerciale ai primordi
della modernità? La bussola, forse, o l’invenzione degli occhiali? Il presunto
nesso causale qui non esiste.
In realtà, il principio astratto dell’accumulazione e, di
conseguenza, il sistema della libera impresa dell’economia monetaria moderna
non avrebbero mai potuto sorgere direttamente dal contesto urbano medievale
delle merci e degli artigiani. Allocati nelle nicchie della società agraria,
questi gruppi rimanevano legati dalle rispettive gilde e corporazioni in un
rigido sistema di tradizioni e mutue obbligazioni. I “mercati” dell’epoca non
si caratterizzavano per la libera concorrenza e ancor meno per la logica
astratta dell’accumulazione. Solo nella
misura in cui dinastie di commercianti – per esempio i famigerati Fugger - acquisirono un’influenza crescente diventando
finanziatori delle guerre sotto il regime delle armi da fuoco, l’interesse
divenne quello della pura e semplice accumulazione monetaria. In quanto
creditori dei principi, questi banchieri erano interessati ai bottini di
guerra, tanto grandi quanto passibili di essere convertiti in denaro. I signori
della guerra personificarono allo stesso modo questo calcolo di redditività
spogliato da ogni bisogno sociale. La razionalità astratta dell’economia
moderna non nacque da un desiderio di benessere generale; essa germogliò dalle
bocche dei fucili e dei cannoni maneggiati da assassini e incendiari
professionisti.
Il maneggiamento di fucili e cannoni fu, in un certo modo,
l’archetipo del “lavoro astratto”. Questa espressione ancora oggi confonde la
maggior parte delle persone, benché non sia difficile comprenderne il
significato. Il "lavoro astratto" è un’attività che si esercita in
cambio di denaro e nella quale l’interesse monetario è decisivo, il che
equivale a dire che il rispettivo contenuto è relativamente indifferente. Nella
forma primordiale della moderna soggettività del denaro, questa indifferenza
arrivava senza mezzi termini fino alla morte stessa, dato che la morte stessa
era accettata come risultato plausibile. L’oggettivazione del mondo in favore
di un indifferente esercizio di somme di profitto includeva
l’auto-oggettivazione dell’individuo stesso al pericolo della morte. Il
soggetto-oggetto storico trova il suo prototipo nei ricchi finanzieri come nei
semplici operai della nuova industria della morte, nei signori della guerra
(altrimenti detti capitani d’industria) come nei soldati in quanto operai
salariati. E’ indifferente contro chi e a favore di cosa si fa la guerra, in
che ramo produttivo si investe, che tipo di lavoro si svolge; ciò che conta è
che ci siano soldi da guadagnare, anche se uno o l’altro deve per questo
perire.
Questo nichilismo cominciò a travestirsi in parabole della
vita campestre. In tedesco, carbone ("Kohle" è uno dei sinonimi
popolari di denaro; N.d.Tr.), o fieno
(Heu) era l’espressione colloquiale che designava l’interesse monetario
astratto. Ciò che si chiedeva di “fare” era “denaro come fieno”, senza altra
considerazione, come rileva una canzone dei soldati mercenari:
Non ci preoccupiamo
del romano impero.
Muoia oggi o domani
per noi fa lo stesso.
Se anche va in pezzi
conta ci si dia il fieno.
Ne faremo una corda
per ricucirlo insieme.
I soldati semplici negli apparati militari emergenti
abbrutivano e allo stesso tempo erano socialmente dequalificati per mancanza di
mezzi di produzione propri. Così furono loro i primi a correre il rischio di
rimanere disoccupati. Quando finiva il denaro nelle casse dei signori della
guerra, i posti di lavoro in seno agli eserciti diminuivano. Molti fucilieri e
artiglieri diventavano vittime di licenziamenti di massa; si incontravano,
allora, senza alcun appoggio, letteralmente in mezzo a una strada ed erano
temuti come vagabondi, mendicanti, banditi e occasionali assassini. L’immagine
del soldato sradicato e molte volte disoccupato corrispondeva a un fenomeno di
massa.
La monetarizzazione
della società
I bottini di guerra e i prestiti dei banchieri di guerra
ricchi in capitale commerciale erano, tuttavia, insufficienti a mantenere la
macchina militare in movimento. Nella stessa misura in cui questa macchina
reclamava ogni tipo di combustibile, la totalità della riproduzione sociale
veniva deviata a tale scopo essendo, pertanto, soggetta simultaneamente alla
forma del denaro. All’inizio, ciò significava la monetarizzazione dei contributi
che, fino a quel momento erano stati pagati con generi naturali. Se l'imposta
in natura si trovava ancora legata al rendimento agricolo reale, l’imposta in
denaro ormai astraeva completamente dalle condizioni naturali e, così,
trasferiva la logica dell’apparato militare nella quotidianità del mondo dei
comuni mortali.
L’insaziabile fame di denaro delle autorità munite delle
armi da fuoco divenne il momento decisivo. Secondo calcoli recenti, il carico
fiscale aumentò tra i secoli XV e XVIII
niente meno che del 2.200%. Il fatto che questa imposizione della forma
monetaria provocasse un effetto demoralizzante sulle persone risulta da
numerose testimonianze.
Perfino Rousseau racconta nelle sue “Confessioni”
autobiografiche di come abbia appreso, durante il suo vagabondaggio giovanile
in Europa, delle sofferenze della popolazione rurale indebolita: “Dopo svariate
ore...entrai, stanco e quasi morto di
fame e di sete, nella casa di un contadino. Pregai il fattore di darmi un pasto
a pagamento. Mi offri del latte scremato e del pane d’orzo scadente, e mi disse
che era tutto quello che aveva. ... Il fattore, che mi aveva fatto domande
tutto il tempo, concluse dal mio appetito la veridicità delle mie risposte.
Dopo avermi spiegato che poteva vedere che ero un giovane buono e onesto e che
non ero venuto per tradirlo, aprì una botola a lato della cucina, scese al suo
interno e tornò un momento dopo con una bella focaccia grossa e una caraffa di
vino. ... quando giunse il momento del pagamento, fu preso nuovamente
dall’agitazione e dalla paura; non voleva denaro, ma lo rifiutò con un
imbarazzo straordinario...e io non riuscivo a capire cosa temesse. Alla fine,
tremante, pronunciò le terribili parole: 'Commissario' e 'Topi di cantina.' Mi
informò che nascondeva il suo vino a causa degli ufficiali e il pane a causa
delle tasse, e che sarebbe stato perso se fossero nati sospetti sul fatto che
non stesse morendo di fame. ... Lasciai la sua casa, tanto indignato quanto
commosso, e lamentai la quantità di questi bei paesaggi su cui la natura aveva
prodigato i suoi doni per farli saccheggiare dai riscossori delle tasse.”
(Libro IV)
Questi riscossori costituirono, dopo i banchieri di guerra e
i condottieri, un prototipo del libero imprenditore nella misura in cui
compravano allo Stato per una somma forfettaria il diritto di riscuotere le
tasse. E a chi non poteva pagare, l’ufficiale giudiziario requisiva, se
necessario, l’ultima vacca o gli attrezzi allo scopo di convertirli in denaro
contante.
Ma la conversione dei tributi in generi naturali a denaro e
l’esorbitante aumento di questi ultimi non fu capace di soddisfare la fame di
denaro delle macchine militari. I regimi militari dispotici al debutto dell’era
moderna cominciarono a fondare le proprie imprese di produzione - fuori da
gilde e corporazioni - la cui finalità non consisteva più nella soddisfazione
delle necessità, ma unicamente nel guadagno di denaro. Queste manifatture e
piantagioni dipendenti dallo Stato producevano, per la prima volta, per un
mercato anonimo di grande estensione geografica che finiva per diventare il
presupposto della libera concorrenza. E visto che nessuno si legava
volontariamente al lavoro salariato, mal pagato com’era, si ricorreva ai
detenuti, ai malati di mente imprigionati e, nella periferia, anche agli
schiavi. Fino a essere inventati delitti con l’unico scopo di organizzare
moltitudini di lavoratori forzati. I direttori delle nuove case di correzione e
di lavoro al servizio del libero mercato, che si andavano formando come
prodotto collaterale della monetarizzazione forzata della società, completarono
l’illustre riquadro dei prototipi del libero imprenditore.
La guerra al servizio
della formazione degli stati
I condottieri che si vendevano, coi loro eserciti privati,
al signore urbano o territoriale che gli facesse la migliore offerta furono un
fenomeno di transizione. Le amministrazioni dei principati, che inizialmente si
erano limitate a figurare come mandanti, non tardarono a prendere la situazione
nelle loro mani. Ciò che in seguito si convertirà nella legge di sviluppo
dell’economia moderna, cominciò a imporsi al livello di potenze che si
combattevano con armi da fuoco; i pesci grandi mangiavano quelli più piccoli.
Una volta messi in marcia dalla dinamica auto-perpetua della
“rivoluzione militare”, gli stati protomoderni appena costituiti iniziarono un
movimento di espansione e, così, entrarono in rotta di collisione. In bagni di
sangue per l’epoca senza precedenti, misurarono per la prima volta le loro
forze basate sulla tecnologia pesante, allo scopo di risolvere con le armi la
questione su chi dovesse avere l’egemonia in Europa. Giustamente lo storico
liberal-conservatore svizzero Jacob Burckhardt parlò della "Guerra della
costituzione dello stato" dei primordi dell’umanità, perché fu in questa
epoca che si formarono le strutture basilari delle strutture di potere ancor
oggi vigenti e di quella che – in quanto
rovescio della riproduzione monetaria – designiamo come politica.
Questa dinamica fu accelerata dalla scoperta delle Americhe.
Nella stessa misura in cui la tecnica della guerra moderna fu messa in moto, la
fame di denaro delle macchine militari condusse all’espansione verso entrambe
le parti dell’America, ciò che senza armi sarebbe stato impensabile. E’ ben
noto che avventurieri come Pizarro macellarono con mezza dozzina di pistole e
una manciata di fucili intere nazioni indiane. L’economia delle armi e il
colonialismo si potenziarono mutuamente. Il traffico permanente tra i vari lati
dell’Oceano Atlantico esigette enormi programmi di costruzione di flotte che
potevano essere realizzate solo con il ricorso all’economia monetaria astratta.
La "Guerra della costituzione dello stato" assunse dimensioni
intercontinentali. Dietro la logica delle armi si nascondeva l’ossessione
megalomane del dominio del mondo. Così la guerra dei sette anni, dal 1756 al
1763, tra Prussia e Inghilterra da un lato e l’Austria, la Russia e la Francia
dall’altro, fu la prima guerra a meritare la designazione di mondiale, vistò
che si dispiegò contemporaneamente in Europa e nelle colonie del Nuovo Mondo.
La Storia cominciò dunque a consistere in una raffica sempre
più rapida di conflitti militari. Secondo Geoffrey Parker, la modernità
costituì, tanto sotto l’aspetto della frequenza come sotto il punto di vista
della durata e dell’estensione delle guerre, il periodo meno pacifico di tutta
la Storia dell’Umanità. Questa intensificazione della guerra e la
militarizzazione dell’economia andavano necessariamente di pari passo con una
centralizzazione della società. Non era solo verso l’esterno, ossia, sul piano
internazionale tra Stati, che i pesci grandi mangiavano quelli piccoli. Anche
all’interno degli Stati, costituiti a immagine e somiglianza del fucile, il
dominio fu riorganizzato. Fino al XVI secolo non era esistita alcuna
amministrazione organizzata dall’alto al basso. Gli individui dovevano offrire
i loro tributi con i generi naturali o attraverso le corvée, ma per il resto
rimanevano per conto loro quotidianamente. La gran parte delle questioni era
trattata da istituzioni tanto limitate quanto autonome. Esistevano grandi
regioni con contadini e artigiani liberi, che assicuravano essi stessi la
propria difesa, senza riconoscere alcuna tutela feudale; il carattere
repressivo delle strutture consisteva qui soprattutto nel carattere di condizioni
regolate da legami di sangue.
La modernizzazione, qui, non significò altra cosa se non la
distruzione dall’alto e dall’esterno di queste forme di "gretta
autonomia" per assoggettare gli individui alle esigenze dell’”economia
delle armi da fuoco”, ossia per
sottoporli alla tassazione monetaria e finalmente convertirli in unità di
rifornimento diretto del lavoro astratto al fine della moltiplicazione del
denaro. Dalle guerre contadine del XV e XVI secolo fino agli “assalti alle
macchine” degli inizi del XIX secolo, i produttori indipendenti si opposero con
rivolte disperate alla loro conversione in carne per le armi della macchina
militare e della sua economia monetaria astratta. Questa resistenza fu affogata
nel sangue. Gli apparati degli Stati assolutisti costituiti sulla base
dell’invenzione delle armi da fuoco imposero i loro imperativi con la violenza.
L’economia svincolata
Dietro l’onnipresente obbligo moderno a guadagnare denaro
sta, alla fine dei conti, la logica esplosiva del cannone. La dinamica delle
alterazioni sociali da essa innescata cominciò, nel XVIII, a divorare i suoi
creatori. Il sistema dell’"economia politica" di un apparato armato e
militare svincolato dalla società e che ormai unicamente può essere alimentato
a costo del lavoro astratto si emancipò dalla sua finalità originale. La fame
di denaro dei regimi militari dispotici dei primordi della modernizzazione si
trasformò nel principio della “valorizzazione del valore” che dai primi anni
del XIX secolo chiamiamo capitalismo.
L’armatura rigida dello Stato militare non fu abbandonata se non per lasciare
libero il campo a una macchina
monetaria, ora indipendente e divenuta puro fine in sé, di un’"economia
svincolata" (Karl Polany) da tutti i legami sociali e culturali spianando
la strada alla concorrenza anonima.
Questa concorrenza totale, perfino nella sua terminologia,
porta inscritte le stigma della sua provenienza dalla guerra totale. Non è una
coincidenza che Thomas Hobbes, fondatore della teoria liberale dello Stato
moderno, designò la "guerra di tutti contro tutti" come lo stato
naturale dell’Uomo. Furono i protagonisti del cosiddetto Illuminismo che, nel
XVIII secolo, tradussero gli imperativi dell’”economia svincolata”
nell’ontologia filosofica astratta del “soggetto autonomo” che, in fondo, è
invariabilmente stabilito come predefinito dalla totalitaria forma del valore.
Il socialismo, dal lato suo, si limitò ad appropriarsi della metafisica dello
Stato in quanto altro polo dell’ontologia borghese e, con essa, delle origini del
mondo moderno nell’economia di guerra. Non per niente il marxismo del movimento
operaio parlò, in modo perfettamente candido e positivo, di “eserciti del
lavoro”.
Per le democrazie del mercato mondiale di oggi, il fine in
sé “svincolato” della valorizzazione del valore e del lavoro astratto, in
quanto imposizione da molto tempo interiorizzata, si trasformò definitivamente
in qualcosa di indiscutibile. Furono ora esse che portarono alle estreme
conseguenze non solo la mercificazione di tutti gli aspetti dell’esistenza ma
anche l’amministrazione burocratica degli individui. Tutti i diritti e le
libertà, tutta la presunta autodeterminazione e auto-responsabilità, tutta la
politica e i programmi di tutti i partiti decorrono sempre da questo muto
apriorismo.
La critica radicale del capitalismo rimarrà bloccata fin
tanto che essa condividerà il fondamento ontologico della soggettività
borghese. La maggior parte dei critici di sinistra degli ontologisti borghesi
sono, loro stessi, ontologisti borghesi. In forma implicita, o perfino
esplicita, continuano ancora ad appoggiarsi alle costruzioni ontologiche
dell’Illuminismo borghese e, per questo, assumono una postura agnostica di
fronte alle vere origini della modernità facendo nascere il capitalismo,
contrariamente alla verità dei fatti, direttamente dalla società agraria.
Un movimento d’emancipazione e d’opposizione alla modernità
capitalista non dovrà coltivare un’ideologia retrograda, ma investire
seriamente nella “dialettica negativa”, oltre Adorno e oltre il materialismo
storico, cioè, dovrà rompere definitivamente con l’ontologia illuminista del
soggetto. E di questo fa parte anche una rivalutazione della storia, nella
quale non sarà più omessa la filiazione della modernità dall’”economia politica
delle armi da foco”.
Bibliografia:
Norbert Elias: Ȇber den Prozess der Zivilisation.
Soziogenetische und psychogenetische Untersuchungen« . 1936.
Rudolf zur Lippe: »Vom Leib zum Körper. Naturbeherrschung am Menschen in der
Renaissance«. 1974.
Karl Marx: »Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie« (O
Capital. Crítica da economia política), primeiro volume. 1867.
Geoffrey
Parker: »Die militärische Revolution. Die Kriegskunst und der Aufstieg des
Westens 1500-1800«. 1988.
Karl
Polanyi: »The Great Transformation. Politische und ökonomische Ursprünge von
Gesellschaften und Wirtschaftssystemen«. 1944.
Werner
Sombart: »Krieg und Kapitalismus«. 1913.
Max Weber:
»Die protestantische Ethik«. 1920.
Max Weber:
»Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie« 1922.
Karl Georg
Zinn: »Kanonen und Pest. Über die Ursprünge der Neuzeit im 15. und 16. Jahrhundert«.
1989.
Originale Der Knall der Moderne Pubblicato nella rivista
Jungle World, 09.01.2002.
Traduzione by lpz