Robert Kurz (2002)
L’attacco contro l’Irak non ha nulla a che vedere con il regime di Saddam Hussein ma piuttosto con le contraddizioni della globalizzazione
L’attacco militare americano contro l’Irak appare ormai scontato. Il governo del presidente Bush jr. si è talmente sbilanciato in questo senso da non poter più fare marcia indietro senza perdere la faccia. In effetti il dispiegamento di forze è iniziato da tempo. Gli USA inviano in continuazione nuovi contingenti di truppe nelle loro basi mediorientali. Un’unità navale supplementare con la portaerei Constellation si è diretta verso la regione del Golfo dove già si trova la Abraham Lincoln. Tutto questo dà la sensazione di come questo attacco venga concretamente predisposto a dispetto di tutti gli sforzi politici. Il governo americano ha spiegato chiaramente che non intende certo lasciarsi legare le mani dalla tanto invocata "comunità internazionale". Il tentativo di strappare una risoluzione dalle Nazioni Unite, funzionale ai propri obbiettivi, serve solo come fiancheggiamento diplomatico. E’ evidente che la volontà di iniziare l’attacco è più forte di ogni altra considerazione.
Varrebbe la pena di ripensare al passato della storia moderna. A partire dal 16° secolo fino alla Seconda Guerra mondiale i problemi relativi alla guerra e alla pace non venivano decisi attraverso una procedura di legalità formale secondo i canoni del diritto internazionale ma attraverso "singole risoluzioni" dei governi la cui legittimità si fondava esclusivamente sulla forza di fatto. Dopo le esperienze catastrofiche dell’epoca delle Guerre Mondiali le norme vincolanti del diritto internazionale nel mondo degli Stati dovettero subentrare alle "riserve di caccia". L’ONU e il suo Consiglio di Sicurezza furono riconosciuti universalmente come il quadro di riferimento di questa normatività. Tuttavia l’ONU non fu mai una potenza di fatto, ma soltanto la rappresentanza formale di una sommatoria di Stati sovrani. Sul piano delle potenze reali il mondo era suddiviso tra una pax americana e una pax sovietica. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica è rimasta solo la pax americana. Si può rimarcare come l’ultima potenza mondiale reale, sorretta da una macchina militare assolutamente superiore e inarrivabile entri in conflitto sempre più acceso con il diritto internazionale e le istanze dell’ONU. Certo anche nel passato gli Stati Uniti non lasciarono alcun dubbio riguardo al fatto che i loro obblighi rispetto all’Onu dipendevano specificamente dalla subordinazione e dalla funzionalità di questa rappresentanza generale degli Stati mondiali alla pax americana. Ma in questo ambiguo rapporto tra ONU, Consiglio di Sicurezza e diritto internazionale da una parte e pax americana dall’altra non si arrivò mai per circa mezzo secolo ad una rottura aperta. Anche la prima guerra dell’ordine mondiale contro l’Irak (1991) fu condotta sotto l’egida formale dell’ONU e in nome del diritto internazionale per fermare l’annessione del Kuwait. Ma già la seconda guerra dell’ordine mondiale contro ciò che restava della Iugoslavia (la Serbia) violò in modo eclatante proprio quei principi che pochi anni prima furono ritenuti validi contro l’Irak. La NATO mise in campo il proprio apparato militare, che consisteva per il 90% di forze americane, senza il mandato dell’ONU. De facto o de iure si trattava di una guerra della NATO contro uno stato sovrano nonché membro delle Nazioni Unite. Durante la campagna militare afghana conseguente all’11 settembre la questione della legittimità formale non venne neppure più presa in considerazione né tantomeno nei recenti preparativi di guerra contro l’Irak. Il diritto internazionale evidentemente non ha più alcun valore. ONU e Consiglio di Sicurezza hanno perso qualsiasi significato e possono solo fungere da comparse della pax americana. L’ultima potenza mondiale reale rompe con la legittimità rappresentata dall’ONU e perciò non prende più seriamente neppure la sua legalità formale. Tuttavia sarebbe assolutamente erroneo vedere in questo processo soltanto un atto di usurpazione di uno Stato o di una nazione nei confronti del resto del mondo. Ogni volta che il governo americano adopera il concetto di "interesse nazionale" per dare una parvenza di legittimità alle sue azioni perlomeno all’interno (verso i propri cittadini) si tratta di un’autoillusione. Nell’epoca della globalizzazione non vi è più alcun interesse nazionale chiaramente definibile, né sul piano economico né su quello politico. Di fatto gli Stati Uniti sono assurti al ruolo di forza difensiva del capitalismo planetario.
Ma precisamente così diventano manifeste le contraddizioni della globalizzazione. Il capitale aziendale assume una forma transnazionale, ma il potere politico–militare, per sua essenza, può esistere solo in una forma nazionale. Il cittadino del mondo propagandato dall’Illuminismo non è altro che una chimera perché il cittadino del moderno sistema produttore di merce è possibile solo in una forma duplice come Jekyll e Hyde: come "bourgeois" da una parte e come "citoyen" dall’altra. Tuttavia l’universalismo del capitale è solo economico e non politico. E’ questa la ragione per cui esiste un mercato mondiale ma non uno Stato mondiale. Il cittadino del mondo può apparire solo come bourgeois mondiale non come citoyen mondiale. La pax americana ormai planetaria è perciò possibile solo nei termini di una relazione paradossale: al livello del potere politico e militare l’universalismo del capitale deve assumere la forma del suo contrario, ovvero la forma dello Stato nazionale e dell’apparato militare nazionale dell’ultima potenza mondiale. In realtà ciò che viene designato come "interesse nazionale" degli USA rappresenta la contraddizione insanabile tra globalismo e nazionalismo. Gli USA devono assumere le prerogative di uno Stato mondiale senza potere essere uno Stato mondiale.
Questa contraddizione si inasprisce nella misura in cui si palesa il carattere della globalizzazione come crisi fondamentale del moderno sistema produttore di merce. Quanti più uomini vengono stigmatizzati come "superflui" a causa della Terza rivoluzione industriale, quante più economie e Stati nazionali collassano e quindi quanto più la valorizzazione del capitale giunge ai suoi limiti storici assoluti, tanto più strenuamente gli USA vengono spinti in qualità di potenza mondiale a reagire all’emergenza globale e ad imporre una sorta di stato di calamità sull’intero pianeta. Tuttavia poiché la regolazione politica dell’economia transnazionale risulta impossibile il comportamento dell’ultima potenza mondiale diventa sempre più irrazionale e violento.
La giustificazione ufficiale per l’ultima spedizione punitiva contro l’Irak è inequivocabilmente una menzogna. La complicità del regime laico di Saddam con la rete del terrore islamica Al Qaeda non è solo indimostrata ma anche inverosimile. Che l’Irak possieda ancora ingenti quantità di armi di distruzione di massa, chimiche o biologiche, viene contestata dai primi ispettori delle Nazioni Unite. Completamente assurda è l’affermazione del presidente Bush secondo cui tale regime, ormai alle corde, possa costituire una "minaccia per il mondo". L’esercito iracheno seppur sostenuto e armato dall’Occidente non fu in grado di avere la meglio sulle truppe mal equipaggiate dei mullah iraniani; di certo non può essere in grado oggi, dopo anni di embargo, di bombardamenti e dopo la distruzione di gran parte del suo arsenale, di lanciare un attacco contro altri paesi arabi o contro Israele. Saddam rappresenta una comune, disgustosa dittatura del Terzo Mondo come ne collassano a dozzine oggi sul mercato mondiale attraversando un processo di dissoluzione delle strutture statali. Molti regimi analoghi sono sostenuti anche dagli USA (e questo originariamente valeva anche per l’Irak).
L’attacco all’Irak annunciato e definito come "imprescindibile" ha ragioni totalmente differenti da quelle avanzate dagli USA a scopo propagandistico. Si tratta in realtà di una "fuga in avanti" quasi disperata con cui l’ultima potenza mondiale cerca di arrestare la perdita foriera di minacce del controllo globale. La guerra contro il terrorismo annunciata ai quattro venti dal presidente Bush si è rivelata un fiasco. L’organizzazione post–statale di Al Qaeda non è stata colpita in modo decisivo. Il governo americano non ha potuto offrire all’opinione pubblica imperiale un corteo trionfale con Osama bin Laden in catene come un capo barbaro. E la cacciata dei talebani è stata ottenuta tramite un accordo vergognoso con banditi e signori della guerra della cosiddetta Alleanza del Nord. Neppure si può parlare di un controllo effettivo sull’Afghanistan.
Gli Stati Uniti non vinceranno una guerra che non possono neppure intraprendere; esattamente come un rinoceronte non può sconfiggere i suoi virus intestinali. Il terrorismo non solo si rigenera nel contesto della crisi mondiale del capitalismo come le teste dell’idra ma si muove in una dimensione completamente differente rispetto a quella dell’ultima potenza mondiale. Al Qaeda non opera al livello della sovranità territoriale ma come un complesso transnazionale negli interstizi e nelle nicchie della globalizzazione. Per una battaglia su questo piano la macchina militare high–tech degli USA è inservibile ed inutile. Gli eterni attacchi aerei con bombardieri Stealth, missili Cruise ecc. colpiscono su grande scala popolazioni, città ed infrastrutture; ma sono troppo grossolani per raggiungere reti transcontinentali come Al Qaeda.
Gli USA necessitano di un successo spettacolare nella guerra per l’ordine mondiale. Devono dimostrare che essi sono ancora "padroni in casa propria". Il potere degli USA, per sua essenza, si riferisce al mondo degli Stati nazionali. Una dimostrazione di forza e di volontà di dominio globale è possibile perciò solo nella forma ormai divenuta anacronistica della guerra territoriale alla Von Clausewitz. Per poter compensare la frustrazione legata alla "guerra contro il terrorismo" e "stabilire un esempio", gli USA abbisognano di un nemico del loro stesso livello nel ruolo di vittima a buon mercato. L’Irak si presta bene perché già da tempo è stato rappresentato ideologicamente come "Stato canaglia". Inoltre il sempre più declinante regime di Saddam, come potere territoriale tradizionale e sovrano fondato su un esercito classico, non ha la benché minima chance.
D’altronde ci sono altre due ragioni importanti per cui proprio l’Irak è stato preso di mira. L’economia mondiale è entrata in una nuova fase di crisi. Il disastro della New Economy e il crollo dei mercati finanziari occidentali dopo la primavera del 2000 si ripercuote sull’economia reale globale. Il centro di questa crisi si trova negli USA, la cui economia da bolla finanziaria degli anni ’90 aveva trascinato l’intera congiuntura mondiale come una locomotiva grazie a fantastiche eccedenze nelle importazioni. La fine inevitabile di quest’era del capitale fittizio minaccia non solo di far precipitare l’economia americana, completamente sommersa dai debiti, e di estendere la bruciante crisi economica sino alle dimensioni di un olocausto globale ma in un orizzonte più ampio anche di compromettere la possibilità di finanziare la macchina militare americana determinando così la fine dell’egemonia globale. Serve un miracolo economico a qualsiasi costo. Il capitalismo da bolla finanziaria deve essere risospinto nel costante movimento ascendente degli anni ’90. Per questo occorre tuttavia un fattore fondamentale che giustifichi il boom della borsa come mera anticipazione di un’era susseguente di crescita dell’economia reale. Da questo punto di vista le opzioni relative ai nuovi ritrovati tecnologici hanno fatto il loro tempo. Le speranze riposte su di un’avanzata secolare degli investimenti e dei consumi attraverso la commercializzazione di Internet o attraverso l’industria delle telecomunicazioni per mezzo dell’UMTS si sono dimostrate un flop. Dopo che i potenziali intrinseci di una crescita reale hanno fallito, un’era del "petrolio a buon mercato" indotta militarmente dall’esterno attraverso l’attacco all’Irak deve fungere da prospettiva trainante per recuperare il boom della borsa e trasformare così anche la prima decade del 21° secolo in un’era del "jobless growth".
Negli USA si parle apertamente di "sbaragliare" con violenza il cartello dell’OPEC. L’economia americana deve essere "salvata" mediante un prezzo del greggio ai livelli pre–OPEC. Per questo scopo tuttavia il controllo e lo sfruttamento della regione del Caspio non è più sufficiente, perché vi si trovano solo giacimenti dell’ordine di grandezza di quelli del Mare del Nord scoperti nel frattempo. Al contrario in Irak non solo si trova il 15% delle riserve mondiali ma queste ultime possono essere estratte a prezzo modico e senza concorrenza. Attraverso un’occupazione militare dei campi petroliferi iracheni e la loro modernizzazione con l’appoggio di un governo–fantoccio installato dagli USA si potrebbe mettere in moto una nuova avanzata della crescita economica globale sotto la conduzione americana.
Ma questo calcolo è irrazionale e può solo accelerare il crollo. Dopo una vittoria militare relativamente agevole l’Irak si lascerà pacificare ancora meno facilmente dell’Afghanistan. Nel Nord c’è la minaccia di un conflitto con la Turchia e nel Sud con l’Iran. La disfatta dell’OPEC rappresenterà la completa rovina per l’intero Medio Oriente e probabilmente anche per la Russia. Al posto dei regimi attuali non subentreranno democrazie beneducate ma condizioni di anomia progressiva e una furiosa guerriglia pan–araba contro le installazioni estrattive e le vie di trasporto del supposto "petrolio a buon mercato", il cui prezzo proprio per questo motivo dovrebbe in realtà esplodere. Gli USA creano con la loro brutale "fuga in avanti" uno stato di emergenza qualitativamente nuovo: essi si muovono verso una dittatura militare diretta ed un sanguinoso regime di occupazione nell’intera regione del petrolio. Neanche la più grande potenza militare della storia lo potrà sopportare per lungo tempo.