martedì 23 gennaio 2007

La stupidità dei vincitori



Robert Kurz

Dalla fine del socialismo alla crisi del neoliberalismo

La storica Barbara Tuchman ha scritto un celebre libro sulla stupidità dei governanti. E’ probabilmente vero che il potere rende stupidi e che, di conseguenza, molto potere rende particolarmente stupidi. Pertanto il culmine della stupidità lo raggiungono forse i grandi vincitori non appena hanno conseguito la vittoria assoluta e la loro intelligenza non viene più stimolata dall’esistenza di una controparte. Coloro che intendono conservare il senno anche da vincitori dovrebbero riconoscere le ragioni dell’avversario di un tempo, trasformarle e farle proprie, per evitare di divenire ostili nei confronti di sé stessi e quindi di auto–distruggersi. In questo senso il capitalismo è davvero il più stupido dei grandi vincitori che la storia mondiale abbia sin qui conosciuto. L’Occidente non ha elaborato alcuna riflessione autocritica riguardo la sua vittoria sul socialismo dell’Est e del Sud. Al contrario ha tentato di presentare come fosse la panacea per tutti i mali, l’ideologia del mercato totale, che non è mai stata reale nella sua storia, come modello della sua egemonia e di esportarla con ogni mezzo nelle regioni della crisi globale. Che cosa è accaduto veramente? L’inizio degli anni ’80 era contraddistinto da bassi tassi di crescita e recessioni, aumento della disoccupazione e straripante indebitamento statale anche in Occidente, fattori che avevano condotto al fallimento di tutti i paradigmi economico–politici. La conversione dalla dottrina keynesiana a quella monetarista era così, inizialmente, un tentativo da parte dell’Occidente di reagire alla sua "crisi al livello più elevato". Attorno alla metà degli anni’80 divenne acuta la "crisi al livello più basso" dell’Unione Sovietica, della sua periferia e di molti paesi del Terzo Mondo. Anche lì si cercò di trovare un nuovo orientamento mediante "più economia di mercato". Alla fine degli anni’80 abbiamo preso atto non solo della fine di ogni sistema di stampo socialista ma anche di un’ondata di guerre civili in molte zone del mondo, della comparsa di forme di "economia fondata sul saccheggio" e del crescente spadroneggiare di bande criminali.
Nel frattempo sotto la spinta del crollo sovietico il neoliberalismo economico proseguiva la sua marcia trionfale. Analizzando la situazione degli ultimi venticinque anni, nel complesso, potremmo arrivare a due conclusioni: primo, abbiamo a che fare con una crisi globale che si è snodata trasversalmente attraverso i sistemi e che probabilmente ha il suo epicentro proprio in Occidente; secondo, ad ogni ulteriore sussulto di questa crisi viene aumentata la dose di medicina neoliberale. Dovremmo porci la questione circa l’efficacia del medicamento. Se è vero che, in ultima analisi, non sono le ideologie ma solo i fatti concreti a decidere, allora è tempo di formulare una prima sintesi. Dove sarebbero i successi del neoliberalismo? Nessuno dei fenomeni che, all’inizio degli anni’80 avevano causato la svolta monetarista nei paesi occidentali è stato rimosso. Al contrario tutti i fattori della crisi precedente si sono aggravati. Negli USA il presidente Reagan si era insediato promettendo di azzerare il deficit statale ma già nel corso del suo primo mandato aveva stabilito un nuovo primato mondiale nell’indebitamento statale per potere finanziare il suo faraonico equipaggiamento militare. Il deficit annuo statunitense che nel 1980 ammontava a circa 60 miliardi di dollari saliva durante l’epoca della politica economica neoliberale ad oltre 200 miliardi di dollari (203,4 miliardi nel 1994). Anche in Europa la nuova dottrina ha fallito in questo obbiettivo: dal 1980 nonostante lo smantellamento delle prestazioni sociali il deficit statale nella sola Germania si è più che quadruplicato. I tassi di crescita reale del mondo occidentale nell’era neoliberale non si sono affatto innalzati ma addirittura si sono abbassati; la ripresa congiunturale diviene di ciclo in ciclo sempre più flebile come il respiro di un moribondo. Dopo aver sconfitto il socialismo l’Occidente è precipitato nel corso degli anni’90 nella più profonda recessione del secondo dopoguerra: negli USA la povertà è cresciuta a tal punto negli ultimi 15 anni che persino ampi settori del ceto medio di razza bianca non ne sono rimasti immuni. La forbice tra redditi alti e bassi si è estremamente allargata; molti lavori sono talmente mal pagati che gli "occupati" non possono neppure permettersi un’abitazione e debbono pernottare nei parchi o nelle gallerie chiuse della metropolitana. Contemporaneamente in Europa i tassi di disoccupazione sono raddoppiati; nella prima parte del 1995 si aggirano attorno all’11%, in alcuni paesi va ancora peggio (il 23% in Spagna). Ovunque nei centri occidentali a partire dal 1980 si sono estesi dei veri e propri "slums" come nel Terzo Mondo. Anche nel resto del mondo i presunti "modelli di successo" del neoliberalismo ad un’analisi più attenta si rivelano illusori. I mercati in crescita dell’Asia perseguono una strategia di "industrializzazione orientata all’esportazione"; il loro relativo successo non può essere attribuito al neoliberalismo perché finora, in completo contrasto con la dottrina monetarista, si sono sviluppati solo attraverso l’intervento massiccio dello Stato e sotto il suo pieno controllo. Anche a prescindere da ciò non è certo tutto oro quello che luccica in Asia. La terra del presunto miracolo, il Giappone, vede davanti a sé, almeno dal 1992, i "limiti della crescita". Sebbene il governo giapponese sforni un programma di emergenza e di simulazione dopo l’altro, i settori centrali dell’economia ristagnano, le esportazioni diminuiscono, la produzione industriale cala. La disoccupazione ha raggiunto all’inizio del 1995 il livello più alto degli ultimi 42 anni, solo la metà dei laureati trova un’occupazione. In tutte le maggiori metropoli nel frattempo sorgono slums ed il numero dei senzatetto (in giapponese "uomini in scatola" perché vivono in contenitori di cartone) cresce costantemente. L’espansione giapponese si è arrestata perché l’effetto di base storicamente utilizzabile solo per un tempo limitato si è nel frattempo esaurito. E’ logicamente necessario che partendo da un livello iniziale molto basso, tanto in termini relativi che assoluti, sono possibili elevati tassi di crescita all’inizio dell’espansione economica che poi devono abbassarsi bruscamente perché i costi per gli investimenti salgono in modo esponenziale mentre le rendite decrescono. Una crescita illimitata, come richiede la legge del capitalismo è praticamente impossibile. Perciò è assurdo che oggi alcuni ottimisti di professione dell’economia di mercato stimino che gli elevati tassi di crescita delle "piccole tigri" del Sud–Est asiatico che oscillano nella prima metà degli anni’90 tra il 6,1% di Taiwan ed il 9% di Singapore si mantengano così alti anche nel corso del 21° secolo. Anche l’Unione Sovietica negli anni’30 ed il Brasile negli anni’70 mostravano una crescita elevata che come è ormai noto non rappresenta una garanzia di successo duraturo. Effettivamente il volume assoluto della crescita asiatica è oggi di gran lunga troppo esiguo per potere trascinare come una locomotiva la stagnante economia globale. Nel 1994 l’intera produzione sudcoreana di automobili, salita di circa il 13% rispetto all’anno precedente, ammontava a 2,3 milioni di unità, pari ai due terzi della produzione della Volkswagen (3,3 milioni di unità) cioè di una sola grande casa automobilistica europea. I "nuovi arrivati" dell’Asia sono così giunti ancor più rapidamente ai limiti dell’effetto di base rispetto al Giappone poiché l’intensità di capitale necessaria per strutture in grado di reggere la concorrenza è maggiore alla metà degli anni’90 di quanto lo fosse intorno alla metà degli anni’70. L’avanzata asiatica si fonda anzitutto sull’indiscriminata distruzione ambientale e sull’utilizzo eccessivo di infrastrutture in cattive condizioni. Secondo la Banca per lo Sviluppo Asiatico il miracolo economico orientale finirà col crollare se non si provvederà alla paurosa scarsità di infrastrutture. Ma a questo scopo dovrebbero essere investiti solo nei prossimi 5 anni più di mille miliardi di dollari, una somma che oltrepassa di gran lunga la capacità di resa dell’industrializzazione da esportazione. A Taiwan il 70% delle riserve idriche si è ormai prosciugato e l’acqua "potabile" inizia perfino a corrodere le macchine; il risanamento dei guasti ambientali costerebbe oggi il quintuplo delle riserve finanziarie di Taiwan. Lo stesso vale per i sinistri "allievi modello" del neoliberalismo in America Latina. I successi, esaltati oltre misura, di Messico, Cile ed Argentina possiedono ancor meno sostanza del progresso asiatico. All’inizio del 1995 il miracolo economico messicano si è dissolto in una nuvola di fumo. Come in altri paesi latino–americani un corso dei cambi sopravvalutato ed artificioso nei confronti del dollaro aveva fruttato una stabilità fittizia. La riduzione del deficit statale e dell’inflazione era stata possibile solo al prezzo di un rapido incremento del deficit di bilancio sulle partite correnti già dal 1988, che aveva attizzato il fuoco di paglia di un boom dei consumi. Quando la convertibilità in dollari della sempre crescente massa di Tesobonos (cambiali di Stato indicizzate col dollaro) a causa del deflusso di riserve monetarie non poté più essere garantita, il castello di carte andò in rovina. Nel giro di poche settimane la produzione cadde ai suoi minimi, centinaia di migliaia di posti di lavoro scomparirono e l’inflazione che si credeva superata ricomparve. A prescindere dal fatto che la débacle messicana potrebbe ripetersi altre due volte, neppure il successo nelle esportazioni delle "tigri di carta" latino–americane appare di qualità asiatica. In Messico ci sono solo "fabbriche–cacciavite" statunitensi e giapponesi prive di una propria base industriale. L’Argentina risana il suo bilancio pubblico vendendo le migliori imprese statali e affamando i suoi pensionati. Ma quali esiti può avere una simile politica? Come contrappeso entra del capitale straniero ma più per scopi speculativi, come in Messico, che per reali investimenti industriali. Il Cile non possiede tuttora una industria leggera capace di esportare in maniera duratura prodotti finiti come la Corea del Sud degli anni’70, poiché le sue industrie tessili e del cuoio si trovano in crisi a causa della durissima concorrenza internazionale. L’esportazione non consiste di automobili, televisioni a colori e microchips o software ma, nonostante la diversificazione, dipende in massima parte sempre dalle miniere di rame. I successi nell’esportazione che nel complesso presuppongono lo sfruttamento delle risorse naturali, si riducono a materie prime naturali, legno e cellulosa, frutta, farina di pesce e frutti di mare. Ma al di là di tutto il miracolo latino–americano è solo un miraggio. Questo perché i tassi elevati di crescita sono da addebitare ad una base di partenza che era il risultato del "decennio perduto" e di una brutale deindustrializzazione. Di "successi" si può parlare solo se le statistiche non vanno più in là del 1988 o del 1985 al massimo. Su di un intervallo di tempo più lungo non si osserva alcun successo ma solo stagnazione perché la crescita nel migliore dei casi ha compensato le perdite degli anni’80 e questo effetto di base secondario si è esaurito rapidamente. Secondo un rapporto della Banca per lo Sviluppo Interamericano dal novembre 1994 l’America Latina non ha risolto neppure uno dei suoi problemi più impellenti mentre la povertà dilaga. Ancora più colossale risulta l’inganno statistico nell’Europa dell’Est. Anche in quei paesi che sono il fiore all’occhiello del neoliberalismo cioè Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca le riforme imposte dall’economia di mercato dopo il 1989 hanno causato la riduzione di circa il 40% della produzione manifatturiera (industriale ed artigianale). La crescita apparentemente elevata che dopo il 1993–1994 viene definita come la "grande svolta", è tale solo in rapporto alla nuova base di partenza che è il risultato di una violentissima deindustrializzazione. Si potrebbe dire per analogia che un cadavere è in via di guarigione perché le sue unghie stanno continuando a crescere un pochino. Nell’Europa dell’Est alla defunta economia nazionale non crescono più neppure quelle. In Russia dove l’idolatria nei confronti dell’economia di mercato è già vecchia di circa un decennio, la produzione industriale dopo il 1989 si è ridotta di oltre il 50%. In Romania la miseria della popolazione è così aumentata dopo le prime riforme nel segno dell’economia di mercato che gli uomini distrutti dalla fame fanno irruzione nei giardini zoologici per macellarvi gli animali. Stendiamo un velo pietoso sull’Africa. Il bilancio complessivo del neoliberalismo e delle riforme di mercato finora è stato una catastrofe unica. Si affermava un tempo che il socialismo fosse un’idea certamente nobile ma inadeguata agli uomini reali. L’economia di mercato globalizzata non è neppure un’idea nobile. Non funziona ed è del tutto insoddisfacente per la vita della stragrande maggioranza degli uomini. L’epoca neoliberale non durerà così a lungo come l’epoca del socialismo e del keynesianismo. Il neoliberalismo era solo una moda ideologica passeggera per la stupidità dei vincitori in uno storico attimo di terrore. Quando la dose della medicina neoliberale non potrà più essere rincarata allora si potrà scrivere sul referto conclusivo: "Operazione riuscita, paziente deceduto". Naturalmente non è neppure possibile ritornare alla vecchia economia statale. L’umanità non ha ancora perfettamente compreso che con la fine di un’epoca entrambe le parti in causa nel vecchio conflitto sono divenute del tutto obsolete e che dobbiamo quindi escogitare qualcosa di completamente nuovo.