sabato 13 gennaio 2007

Quattro domande a Norbert Trenkle



Antwort auf einige Fragen von Lupezio:


Il lavoro perso nell’industria in seguito alla microelettronica potrebbe essere compensato attraverso l’espansione dei servizi (secondo quello che è poi il discorso della società post-industriale)?

La categoria di "servizi" è un concetto generale entro il quale vengono riuniti i più diversi lavori. Una parte di questi lavori è senz’altro produttivo di valore in senso capitalistico, ovvero contribuisce alla valorizzazione del capitale. In linea di principio, un lavoro produce valore quando la forza lavoro in quanto capitale variabile viene comprata per produrre merci nelle quali si rappresenta il valore della merce forza-lavoro più il plusvalore da essa realizzato, ovvero quando si compie il classico ciclo D – M – D’. Non è importante di che tipo di merce si tratti: può essere un frigorifero come un sacco di patate, un massaggio come la pulizia di una stanza o la recita di un pezzo teatrale. Non produttive di valore sono invece tutte quelle attività che devono venir realizzate esclusivamente per la circolazione delle merci e del valore, che sono numerose: amministrazione, compra e vendita, attività bancarie e assicurazioni, pubblicità, la burocrazia statale ecc. Esteriormente questi lavori sono organizzati nel settore privato come attività produttive di valore (una venditrice produce lavoro salariato così come una lavoratrice dell’industria), ma la loro funzione nel processo generale capitalistico è un’altra: essi non servono alla "produzione" di valore ma solo alla sua realizzazione sul mercato e alla sua circolazione nella sfera monetaria.
Generalmente dunque per "servizi" si intendono queste attività della circolazione, la cosa non può certamente essere negata. Bisogna considerare che una gran parte dei cosiddetti "servizi" cade in questa categoria. Questi servizi sono direttamente connessi alla crescente produttività della produzione. Poiché ogni singola merce rappresenta sempre meno valore, devono essere gettati sul mercato sempre più prodotti al fine di valorizzare il capitale. Ciò naturalmente significa anche che il marketing e la vendita acquistano sempre maggior peso. Questo si vede bene anche nella letteratura del management ed economica (anche se naturalmente non teorizza sul valore tantomeno lo critica). C’è poi un altro aspetto: la sovraccumulazione di capitale (come espressione della crisi) ha già portato sin dagli anni ’80 ad un mostruoso rigonfiamento dei settori del credito e della speculazione ("capitale fittizio"). Ciò ha determinato un aumento dell’occupazione in questo campo. In particolar modo negli anni ’90 questo è stato uno dei pochi settori dove sono nati nuovi posti di lavoro (nel frattempo sempre più attività anche nel settore della circolazione sono state razionalizzate e rimpiazzate dai computer). Molta della valorizzazione ideologica della "società dei servizi" nasce da questo boom finanziario (e dal boom del settore tecnologico e informatico), che però aveva già in sé un grande potenziale di crisi.
Per quanto riguarda l’altra parte dei "servizi", che almeno in linea di principio possono venire organizzati produttivamente per il valore o per il capitale, c’è bisogno di un’analisi più accurata, che posso però schizzare qui solo per grandi linee. Fondamentalmente si potrebbe pensare che queste attività possano almeno parzialmente compensare l’espulsione di lavoro vivo nella produzione, tuttavia ci sono dei problemi:
a) una gran parte di questi servizi non-circolativi viene eseguita nelle forma di lavoro salariato, ma non nella forma di lavoro (salariato) produttivo di valore. Quando per esempio qualcuno assume una domestica per pulire la propria casa, questo lavoro non serve all’incremento di capitale, bensì si inscrive direttamente nel consumo della persona che acquista la forza lavoro. Questo è un aspetto importante, perché molti servizi personali vengono acquistati in questo modo, non quindi da una qualche ditta che utilizza la forza lavoro per valorizzare il capitale (un esempio: una impresa delle pulizie). È il carattere materiale di tali servizi a permetterlo, visto che essi non richiedono grandi e costose apparecchiature e inoltre necessitano sempre del contatto diretto fra compratore e venditore/produttore/fornitore di servizi (come accade anche per esempio nel settore della gastronomia o della cura degli anziani).
b) Una parte più ampia, decisamente più considerevole dei "servizi" cade nella categoria "produzione di sapere". Queste attività sono una volta di più da considerare separate, poiché fabbricano un "prodotto" che è innanzitutto di carattere generale e sociale e in secondo luogo non viene bloccato con il suo uso. Paradigmatici sono in questo senso i programmi di computer, i quali una volta sviluppati possono essere riprodotti in modo incontrollato con il minimo sforzo. Si tratta qui della materializzazione di quello che Marx ha definito, con la sua famosa formula, il "general intellect". Questa formula viene abusata in particolar modo dai post-operaisti, ma essi non riflettono affatto sulle sue implicazioni per la teoria del valore: essa implica cioè che la produttività si dispieghi dallo sfruttamento del lavoro immediato sul terreno della produttività sociale e generale e questo significa, in ultima istanza, che il valore (in quanto deve sempre render conto al singolo prodotto) ne viene logorato. Queste attività non hanno dunque in alcun modo un effetto compensatorio nel processo di crisi, bensì appartengono piuttosto alle sue cause.
c) Permane una certa parte di "servizi" che sicuramente sono per il capitale sfere istituzionali (ad esempio l'industria del turismo o il settore della salute), tuttavia anch'esse non sono in grado di raggiungere la misura che sarebbe necessaria per compensare la perdita di forza lavoro produttiva di lavoro.
Questi aspetti dovrebbero certamente essere studiati più a fondo di quanto abbiamo fatto fino ad oggi. A questo scopo essi saranno proprio fra i nostri punti caldi nel prossimo futuro. Il n.30 di Krisis (che dovrebbe uscire a Ottobre 2005) sarà proprio dedicato, fra le altre cose, a ciò.


In Italia sono moltissime le aziende in crisi ma buona parte della sinistra (sindacale e non) vede l’origine del problema nel fatto che sul mercato si è affacciata la Cina, così che la produzione italiana dovrebbe evitare di concorrere sullo stesso piano coi cinesi (puntando quindi ad esempio al marchio di prestigio). Ciò è realistico?

È piuttosto ridicolo pensare che l’espulsione di forza lavoro nei settori della produzione di massa possa venir compensata dalla concentrazione sui prodotto di qualità, di lusso o di prestigio. Il mercato per questi prodotti è molto limitato e perciò offre spazio solo a poche ditte specializzate, certamente mai a un intero paese come l’Italia (oltretutto non è solo l’Italia l’unico paese a propagandare questa assurda "strategia"). Chi dovrebbe comprare tutti quei prodotti costosi quando in modo permanente le entrate della maggioranza della popolazione si sono ridotte?

Parallelamente c’è chi pensa che il lavoro è in crisi solo localmente perché il capitale è alla ricerca di manodopera sempre più a basso costo, il che però fa venire il dubbio su chi poi comprerà le merci vista la crescente contrazione dei consumi: legittima obiezione la mia?

La tua obiezione è pienamente giustificata, poiché la crisi della valorizzazione del capitale si presenta anche sempre come crisi di mercato. Poiché, se sempre maggior forza lavoro viene lasciata a casa, dunque sempre meno uomini possono piazzare la loro merce forza-lavoro e quindi avere un’ entrata, come dovrebbero poter comprare i beni di consumo? E la forza lavoro mal pagata avrà sicuramente meno soldi per il consumo rispetto a quella che guadagna bene. Tutto ciò non vale solo localmente, ma anche in misura mondiale, visto che il contesto in cui si viene sotto pagati o espulsi come forza lavoro superflua diventa sempre più globale.
La perdita di consumo è ampiamente riconosciuta, ed è un argomento ripetuto sempre più spesso dai neo-keynesiani al fine di invocare più alti salari per superare la congiuntura. Questo è palesemente illusorio, poiché quello che è qui ben chiaro, è che si tratta di una contraddizione di fondo da parte del capitalismo: da una parte salari e costi dovrebbero abbassarsi, così rendendo alta la rendita, dall’altra parte dovrebbero possibilmente essere alti, così che gli uomini possano fare molti acquisti. Questa contraddizione non è risolvibile, bensì può solo essere, entro una duratura crescita, temporaneamente ammorbidita. Là dove, però, l’espansione non funziona più, la crisi si fa sempre più visibile.

Cosa risponderesti a chi facesse alla teoria di Krisis la critica di essere viziata dal finalismo? Il punto è che una storia delle relazioni feticistiche che si conclude con la possibile uscita dal feticismo (uscita dalla preistoria) grazie al limite assoluto della merce, se solo cioè attraverso questo stadio l’umanità si può autosuperare, a ritroso non c’è un che di salvifico, di provvidenziale, cioè di finalistico?

Noi non affermiamo che la crisi finale del capitalismo (che è un processo lungo decenni, va sempre sottolineato al fine di evitare l’equivoco che si tratti di un semplice crollo istantaneo) in un qualche modo quasi automatico conduca ad una società liberata oppure ad un superamento del feticismo. Questa sarebbe la vecchia illusione della filosofia della storia, che è da criticare radicalmente. Quello che diciamo è che la società delle merci viene condotta al suo limite assoluto da proprie storiche e dinamiche contraddizioni interne. Fa parte della sua autoreferenziale logica feticistica che questo sia un processo catastrofico, in cui grandi energie distruttive, che il capitalismo ha accumulato in sé, esplodano in modo atroce. Ciò che noi viviamo è una fine spaventosa. Questo certamente risveglia la necessità di rompere completamente con il feticismo, visto anche che le prospettive di un immanente miglioramento o di "riforme" non si dà più. Se questa rottura emancipatrice si dia o meno, non è una cosa determinabile, bensì dipende unicamente e solo dal fatto che si costruisca un movimento sociale mondiale che insieme la compia.
Nel caso ci si possa rimproverare un certo "finalismo", esso è però in primo luogo del tutto negativo e in secondo luogo non è fondato su una filosofia della storia (con qualche fittizia "legge della storia"), bensì solo sull’analisi di una specifica logica storica della società delle merci. E per ciò che riguarda la prospettiva di una possibile "fine della preistoria", non affermiamo alcuna "logica oggettiva" ma insistiamo piuttosto sul fatto che forse come mai prima di oggi, proprio in conseguenza di ciò, perviene alla coscienza, alla ragione e alla volontà di lottare contro questa logica oggettivante (che è una logica di distruzione).


2004, traduz. by M. Maggini