Robert Kurz
Contro l'illusione della "vittoria" dell'Occidente e della sua economia di mercato
I. E' famosa la profezia che Alexis de Tocqueville pronunciò più di centocinquant'anni fa: "Vi sono oggi sulla terra due grandi popoli che, partiti da punti differenti, sembrano avanzare verso un'unica meta: i russi e gli americani [...] Per raggiungere il suo scopo, il primo si basa sull'interesse personale e lascia agire senza dirigerle la forza e la ragione degli individui, solo il secondo concentra in qualche modo in un uomo tutto il potere della società. L'uno ha per mezzo di azione principale la libertà; l'altro la servitù. Il loro punto di partenza è differente, le loro vie sono diverse; tuttavia entrambi sembrano chiamati da un disegno segreto della Provvidenza a tenere un giorno nelle loro mani i destini della metà del mondo".
Nell'epoca in cui si fronteggiavano le due "superpotenze" si citava spesso con ammirazione questa profezia. Adesso, alla fine di quest'epoca, il principio americano sembra aver trionfato su quello russo, quello dell'Ovest su quello dell'Est. Saranno dunque gli USA da soli a governare d'ora in poi i destini di tutta la terra? Sarà la spinta della libertà in forma di mercato [marktförmige Freiheit] a regolare, a partire da oggi e fino alla fine dei tempi, la one world del denaro totale? E' strano, ma gli americani e gli ideologi occidentali della libertà di mercato sembrano crederci sinceramente, benché sia anche possibile leggere gli eventi in modo del tutto diverso.
Il discorso sulla vittoria del sistema occidentale implica una descrizione a dir poco incompleta della reale situazione nel mondo. Avrebbe dovuto dar da pensare il fatto che alla fine del conflitto Est-Ovest non abbia fatto seguito la "pace perpetua" kantiana di una società mondiale modellata sul mercato, mentre la seconda guerra del Golfo, la guerra civile jugoslava, i conflitti armati nella Unione Sovietica in via di dissoluzione e i flussi impazziti di profughi in tutto il mondo sembrano piuttosto annunciare un'epoca di "guerra civile mondiale" (Carl Schmitt) con fronti confusi.
Tuttavia, i sistemi non sono crollati soltanto all'Est. Già un decennio prima aveva avuto inizio il collasso del Sud, e cioè di quelle megaregioni decolonizzate che nell'epoca delle superpotenze figuravano come terzo mondo e che per lo più venivano dominate da regimi filo-occidentali. Per la maggior parte dell'Africa, dell'America latina e dell'Asia, l'integrazione nel mercato mondiale è diventata una interminabile catastrofe socio-economica che ha ormai creato una situazione apocalittica. Solo pochi "paesi emergenti" potevano vantare alcuni successi, ma anche questi erano dovuti solo all'occupazione di nicchie nel mercato mondiale, sulla quale l'ultima parola non è stata ancora detta. Già oggi le masse sradicate del globo stanno diventando una minaccia per le sempre più piccole isole occidentali di normalità e di benessere. Il fondamentalismo del mondo islamico umiliato non è una tradizione del passato, ma un fenomeno postmoderno: l'inevitabile reazione ideologica al fallimento della modernizzazione occidentale. Non soltanto nel Magreb, alla porta dell'Europa, si annuncia un terremoto sociale che non può più venir arrestato con le formulette dell'economia di mercato. In America Latina manca per il momento una simile produzione di ideologie antioccidentali, ma qui è la non meno temibile mafia della droga che con i suoi miliardi di dollari è diventata per milioni di uomini l'unica fonte di reddito monetario e per gli stati andini il pilastro di sostegno nel mercato mondiale. E' ridicola l'indignazione morale dell'ufficialità occidentale, che con i propri deficit sociali e umani ha creato essa stessa il mercato della droga e ha fatto proprio del reddito monetario l'unica condizione di vita (negli USA viene addirittura stampato sul biglietto da visita come marca di riconoscimento sociale).
A differenza delle masse disilluse del Sud, quelle dell'Est credono ancora nella promessa occidentale, poiché fino a ieri erano letteralmente chiuse dentro un sistema che si presumeva antagonista dell'altro, quello occidentale, che esse, a quanto sembra, giudicavano ingenuamente secondo le immagini della pubblicità televisiva. Ma quando diventerà chiaro che l'Occidente non li potrà mai minimamente integrare e che essi dovranno rimanere "fuori dalla porta" di una vita degna, proprio come le masse del Sud, allora l'inevitabile delusione potrebbe esplodere in modo ancora più violento che nelle forme del fondamentalismo o della mafia della droga. L'entusiasmo della prima ora per la procedura formale delle libere elezioni si è già raffreddato e la partecipazione elettorale è scesa, per esempio in Ungheria, al livello degli USA (sotto il 30%). La riunificazione tedesca rischia di trasformarsi in una crisi permanente piuttosto che in una "posizione di nuova potenza mondiale". Le scene di Bari, quando accanto alle spiagge popolate di vacanzieri sono sbarcati migliaia di profughi albanesi disperati e in stracci che ingaggiavano vere e proprie battaglie con i carabinieri, hanno fatto balenare il furore di una povertà irrimediabile che non si conformerà a nessuna "legge dell'economia di mercato". Dei quattrocento milioni di uomini dell'Europa orientale affamati di un più alto livello di vita non ci si può sbarazzare dando loro una camicia, un paio di pantaloni e cinquantamila lire a testa, come hanno cercato di fare le autorità italiane.
Si aspetta il miglioramento e si promette che al "decennio perduto" per la massa enorme di poveri nel mondo all'interno della socializzazione mondiale del denaro farà seguito una nuova prosperità data dal mercato. Ma per gli orecchi degli uomini dell'Est, queste parole vuote devono avere lo stesso suono delle promesse di un futuro immaginario con cui lo stalinismo giustificava le sofferenze infinite del presente. Se il Sud del globo ha già subìto un naufragio crudele con la gloriosa economia mondiale occidentale, perché l'Est dovrebbe avere una sorte migliore adesso, dopo la caduta della cortina di ferro? Se né le masse africane e latino-americane né quelle del subcontinente indiano hanno potuto sviluppare dei "nuovi mercati", perché allora l'economia di mercato dovrebbe avere più successo all'Est? Forse si aprirà uno scenario molto diverso da quello ingenuamente atteso: l'assoluta incapacità del mondo capitalistico di poter almeno abbozzare una soluzione dei problemi sociali ed ecologici che appaiono alla fine della modernità nelle forme del proprio processo riproduttivo. La pretesa assolutistica che la terra intera debba seguire le leggi occidentali di mercato, concorrenza, denaro e democrazia, si rivelerebbe allora sommamente assurda.
L'ultima ratio di una forzata amministrazione poliziesca del pianeta, quale è stata tentata nell'azione dell'ONU contro l'Irak, può difficilmente valere come prospettiva di una "famiglia di popoli". In ogni caso, si trattava piuttosto di un atto di forza - forse l'ultimo - , fortemente irrazionale, di una potenza mondiale al tramonto che si è rovinata con gli armamenti quasi quanto il suo antagonista orientale e che, se può rinviare più a lungo la sua fine, lo deve soltanto ai mercati finanziari internazionali. Dietro alla hybris degli USA di voler dettare all'umanità intera un "nuovo ordine mondiale" - di cui il suo presidente non era in grado di sviluppare neanche un'idea nebulosa - non c'è più una corrispondente potenza economica e tecnica. Ma non c'è neanche un altro centro capace di mettersi al posto degli USA; meno di tutti un'Europa che comincia a venir visibilmente risucchiata nel vortice della crisi dell'Est e che non sa far fronte alla polveriera islamica sulle coste del suo mare domestico. Già un secondo atto di forza come quello contro Saddam Hussein potrebbe essere disastroso. Il mondo però è pieno di regimi criminali, istallati dall'Occidente stesso, che cominciano a rendersi indipendenti sotto la pressione della modernizzazione morente.
Infine, le fanfare occidentali della vittoria coprono a fatica il fatto che la reale forza di integrazione dell'economia di mercato è diminuita anche verso l'interno, benché ora, dopo il collasso dell'Est, non sembri più esistere nessuna alternativa formulabile. Già a partire dagli anni settanta, il lato occidentale del mercato mondiale non è più capace, a differenza della prosperità del dopoguerra - gli anni del "miracolo economico" - di coinvolgere pienamente tutti gli abitanti almeno delle regioni della OECD. Sono sempre di più i perdenti, all'interno dell'Occidente, che vengono rigettati proprio a quel livello di povertà da cui l'Est sta cercando di fuggire. Interi paesi e regioni sono già diventati un "terzo mondo nel primo mondo", il reale livello di vita di milioni di cittadini occidentali si distingue solo leggermente da quello delle masse dell'Est. Il divario sociale negli USA non era mai stato tanto grande quanto oggi; si accrescono inarrestabilmente le macchie di povertà sulla carta della Gran Bretagna. Perfino sulla cima della piramide del mercato mondiale il numero dei disoccupati si accresce rapidamente da un mese all'altro; e i presunti super-vincitori giapponesi vivono per lo più quasi come topi di laboratorio. La vittoria dell'economia di mercato sembra diventare identica alla trasformazione del mondo in bassifondi.
Tutte queste cose non sono più dei semplici "nei" della one world dell'economia occidentale basata sulla concorrenza. La celebrazione della vittoria smentisce se stessa quando tra i tavoli giacciono i cadaveri. Non ha perduto solo l'Unione Sovietica: tutta l'epoca delle "superpotenze" è giunta alla fine. E non ha fallito solo l'economia pianificata dell'Est, ma anche l'economia di mercato dell'Ovest. Solo una coscienza che continua ostinatamente a pensare secondo le vecchie costellazioni tramontanti può qui voler proclamare un "vincitore".
II. E' dunque possibile che la base economica di tutto il sistema mondiale moderno abbia cominciato a vacillare. Vale la pena riflettere su quale sia in fondo quella "stessa meta" verso cui Tocqueville, nella sua visione politico-economica, vedeva "avanzare" sia l'Est che l'Ovest. Un teorico di questo calibro non poteva intendere con ciò quella banale identità che nasce dalla constatazione che sia nell'uno che nell'altro sistema si danno mere pretese di potere fondate su grandi risorse, ma doveva riferirsi piuttosto a quella comune forma di base che allora veniva ancora percepita come oscura, e che oggi viene chiamata generalmente modernità. Non erano in gioco dei principi che si escludevano a vicenda, ma soltanto delle vie diverse indirizzate alla stessa identica forma di socializzazione del moderno.
Come si sa, gli USA non avevano fondamenti feudali o comunque premoderni e precapitalistici da smantellare e da modificare. L'"interesse privato" e la "ragione del singolo" potevano svulupparsi immediatamente su proprie basi. Questa situazione di tabula rasa mancava, tuttavia, non soltanto in Russia, ma anche in Europa e in tutto il resto del mondo. Qui la modernizzazione si è perciò sempre imposta in una forma statalista, assolutista o dirigista (e spesso nella forma dell'economia di Stato). Le strutture coercitive tipiche dell'economia di guerra dell'assolutismo mercantilistico sono sparite storicamente soltanto per ritornare modificate nell'epoca delle guerre mondiali e del keynesismo con il suo misto di welfare e di riarmo. Persino gli USA, nel loro ruolo di potenza mondiale sempre più deficitario e parassitario, non ne erano più al riparo dopo la seconda guerra mondiale (come documenta il dibattito interno, da molto tempo in corso e senza esiti, sul peso dell'"economia di guerra permanente"). La "reaganomics", apparentemente espressione di una sconfinata fiducia nel mercato, ha addirittura creato con il boom degli armamenti degli anni ottanta una "segreta economia di stato" supplementare, di proporzioni gigantesche e che solo al prezzo di aspre contraddizioni potrebbe essere ridimensionata.
L'astratta servitù dell'economia di Stato e l'astratta libertà dell'economia di mercato si postulano a vicenda, prevalendo ora l'una ora l'altra nelle successive fasi storiche della modernizzazione. La servitù "russa" nel senso di Toqueville non conterrebbe dunque nulla di anti-occidentale, ma costituirebbe piuttosto la via russa all'occidentalizzazione; e non soltanto la via russa, ma, dal punto di vista storico, la via non-americana in generale. In tutta l'Europa, la libertà occidentale è passata attraverso le camicie di forza del terrorismo di Stato dai colori più diversi: da Cromwell a Robespierre, da Napoleone a Bismarck, allo stesso Hitler. Anche Stalin rientra in questa serie, che è appunto una serie di tappe che, pur essendo ogni volta diverse e contradditorie in sé, sono sempre tappe di un identico processo. Se a questo elemento identico si deve dare un nome al di là dei concetti superficiali di "Stato" e "mercato" (o "servitù" e "libertà"), bisognerebbe definirlo, seguendo Karl Marx - per l'ennesima volta dichiarato morto prematuramente -, come il sistema del lavoro astratto.
Questo singolare concetto non è mai stato mobilitato nella sua potenza critica dal marxismo del movimento operaio o da quello sovietico, che al contrario l'hanno ripreso affermativamente. Esso rimanda a quella "stessa meta" presagita da Tocqueville, e cioè alla vera forma basilare della modernità. Il lavoro astratto moderno, il cui funzionamento è costituito dall'"automovimento del denaro" (Marx), si distingue radicalmente da tutte le altre forme storiche di riproduzione. La ricchezza non si definisce più nelle sue qualità materiali, ma come ricchezza astratta, immateriale, spettrale fino agli input della contabilità elettronica. I bisogni materiali devono così sottomettersi alle leggi astratte dell'autovalorizzazione del denaro. L'utilizzazione astratta e "aziendale" di forza-lavoro e di materie prime senza riguardo alcuno per il contenuto materiale richiede l'addestramento dell'uomo per questo scopo che gli è estraneo. La libertà del mercato, a tale riguardo, è una servitù solo di poco inferiore a quella imposta dalla burocrazia statale, poiché la "ragione del singolo" viene incarcerata a priori nelle leggi coercitive del denaro, leggi poi ideologicamente trasfigurate in essenza umana. Il marxismo del movimento operaio, ancora prigioniero di questo mondo, non ha criticato la macchina sociale dell'astrazione in quanto tale, ma soltanto il meccanismo redistributivo reputato "ingiusto" all'interno di una forma che veniva presupposta come ovvia.
Questa modernità aveva, beninteso, i suoi lati emancipatori. Essa ha allargato enormemente la sfera dei bisogni materiali, sebbene non coscientemente, ma seguendo ciecamente l'astratto scopo della valorizzazione. Questo processo fu tuttavia sempre accompagnato da immani distruzioni. Esso poteva andare "bene" (se questo eufemismo è lecito) solo finché disponeva ancora di spazi per imporsi e per estendersi contro la povertà premoderna dei bisogni e contro il "sottosviluppo". Ma già la forma "russa" della servitù come via all'occidentalizzazione dimostra retrospettivamente la precarietà di questo processo. L'economia sovietica seguiva visibilmente la logica basilare del lavoro astratto. Ma a differenza dell'Europa occidentale, all'Est non si poteva più abolire o modificare l'economia da caserma che ha rappresentata la forma assolutista in cui si è imposta la forma-merce. Il motivo sembra risiedere nel più alto livello di sviluppo del sistema mondiale complessivo: ogni newcomer deve cominciare con un impiego di capitale sempre più alto. Già all'inizio del ventesimo secolo ciò era possibile soltanto attraverso una centralizzazione statale salda e duratura degli astratti "processi di formazione del valore". In quest'ottica, il sistema sovietico non sarebbe da chiamare un "protosocialismo" (Rudolf Bahro), ma, al contrario, un "protocapitalismo", il quale non è stato, tuttavia, in grado di maturare fino all'occidentalizzazione. La concorrenza su mercato interno doveva rimanere sospesa per poter resistere temporaneamente alla concorrenza esterna del mercato mondiale.
Un sistema di utilizzo astratto ed aziendale di forza-lavoro e di materie prime, slegato dai meccanismi di regolazione interna che nascono dalla concorrenza sul mercato, è capace al massimo di far nascere dal nulla le strutture più elementari dell'industrializzazione proprie della modernità (alfabetizzazione, elettrificazione, industrie carbosiderurgiche, costruzioni di ferrovie e via dicendo). Ma poi precipita rapidamente nella stagnazione. Ancor prima dell'economia sovietica, hanno subito questo destino i "paesi in via di sviluppo" del terzo mondo, i quali anche nelle varianti filo-occidentali avevano puntato per forza di cose su piani quinquennali, economie statali e progetti sovvenzionati di industrializzazione. L'Occidente, che nel frattempo si era spinto ancora oltre sviluppando ulteriormente le proprie basi, non poteva certo venir raggiunto per questa via.
La maggior parte di questi tentativi di industrializzazione o si fermava fin da principio al di sotto del livello globale della produttività determinato dalle punte più avanzate, oppure vi ricadeva rapidamente. Le strutture protomoderne o "semi-modernizzate" dei diversi ritardatari dovevano tuttavia rimanere forzatamente compatibili con le economie occidentali attraverso il mercato mondiale. Il risultato è stato disastroso disastroso: il peggioramento dei terms of trade (il rapporto tra prezzi d'esportazione e prezzi d'importazione) ha fatto precipitare le economie scarsamente produttive produttive - inizialmente quelle del Sud (meno protette sul piano politico-militare), adesso anche quelle dell'Est - nella crisi debitoria con conseguente deindustrializzazione.
Con singolare cinismo, gli esperti occidentali esortano oggi le diverse economie in procinto di crollare (oppure le costringono tramite le istituzioni finanziarie internazionali) ad "aprirsi" attraverso lo smantellamento dell'economia statale, la deregolamentazione e la privatizzazione, il più possibile radicali. Questa terapia d'urto può finire soltanto con la morte dei pazienti, poiché le loro industrie che già non erano più concorrenziali con il protezionismo statale, in questo modo vengono ancora più rapidamente battute dalla concorrenza e tagliate fuori. La rivoluzione microelettronica non ha diminuito, bensì accresciuto vertiginosamente l'intensità di capitale nella produzione e soprattutto il capitale iniziale necessario per sostenere i costi preliminari dello sviluppo e le sue condizioni infrastrutturali. Le condizioni per entrare nella concorrenza mondiale o per continuare a parteciparvi sono divenute ancora più aspre per i più deboli. Invece di poter passare finalmente al consumo, dopo decenni di continui investimenti nelle strutture di base dell'industria pesante, le popolazioni dovrebbero dissanguarsi per altri decenni in ragione degli enormi investimenti necessari per gli impianti ad alta intensità di capitale della computerizzazione e della robotizzazione. Tutto ciò non è sostenibile. La logica occidentale della concorrenza palesa la sua assurdità proprio nella sua "vittoria" come sistema mondiale.
III. Attualmente si fa un gran parlare del "prezzo della modernità" da pagare in un modo o nell'altro. Ma questo prezzo è diventato troppo alto per la maggioranza della popolazione mondiale. Se i capitali monetari necessari venissero prestati alle economie avviate al crollo, le spese per gli interessi dovrebbero superare nella maggior parte dei casi i rendimenti possibili, come la pratica ha del resto già dimostrato. Ma non è neppure possibile continuare a prestare questo capitale e tanto meno regalarlo, poiché l'Occidente stesso è sopraffatto da tempo dalle conseguenze del principio astratto della valorizzazione, tanto da quelle interne (debito pubblico) quanto da quelle esterne (deficit nel commercio e nella bilancia dei pagamenti). Anche in Occidente alcune economie minacciano di avviarsi al collasso. Dopo l'Africa, l'America Latina e l'Europa dell'Est, presto anche il mondo anglosassone e i capitalismi dell'Europa meridionale potrebbero sprofondare in un oceano di fallimenti. L'incredibile indebitamento di settori interi, la folle struttura della speculazione internazionale (soprattutto in Giappone) e la fame non più appagabile di capitale monetario fresco sospingono anche il "vincitore" verso la catastrofe monetaria, forse già negli anni novanta.
La canzone del "dividersi le risorse", popolare tra tutti i politici che gestiscono lo stato d'emergenza in cui è precipitata l'economia di mercato, modula una falsa melodia. Se esistesse troppo poco pane o troppo pochi mezzi per produrlo, allora i buoni cristiani potrebbero cantare la loro canzoncina. Ma la logica occidentale del mercato sfocia in un numero crescente di paesi nell'abbandono di risorse perfettamente intatte sul piano tecnico per mancanza di redditività. Le popolazioni debbono patire la fame e lasciare inutilizzati mezzi produttivi disponibili, per il solo motivo che non si riesce a soddisfare la legge del denaro. Per quanto tempo ancora lo sopporteranno? Gli esperti occidentali, presi dalla celebrazione del mercato, ancora non hanno notato che i fenomeni di crisi, prima solo passeggeri, sono diventati una condizione stabile della società mondiale.
I meccanismi del mercato stanno impazzendo a ritmo vertiginoso, sfuggendo a ogni controllo, mentre i tentativi statali di reazione non approdano a niente. I pensionati polacchi vivono di stenti, poiché i loro redditi non sono più sufficienti per comprare i prodotti agricoli del paese i cui prezzi hanno dovuto esser aumentati. Adesso si parla di esportare questi prodotti nell'Unione Sovietica, il che però, per mancanza di solvibilità, può realizzarsi solo con l'aiuto di crediti occidentali che, con il peso degli interessi, avrebbe probabilmente effetti negativi sui redditi sovietici. Forse, alla fine, gli alimenti verranno distrutti come d'abitudine; una soluzione che nel sistema folle dell'agricoltura CEE da tempo è stata adottata ed è diventata normalità.
L'elemento che sta alla base di tutti i sistemi della modernità, l'utilizzo aziendale di lavoro astratto al di là dei bisogni materiali, sembra aver raggiunto il suo limite storico, tanto nella forma di economia statale (mercato pianificato) quanto in quella di economia concorrenziale (mercato libero). Invece di facilitare la vita, le forze produttive scientificizzate, ciecamente generate dalla concorrenza, precipitano il mondo nella miseria, poiché sono incatenate alla produzione astratta di profitto. Questa forma di riproduzione della società, in tutte le sue varianti, scarica sistematicamente all'esterno i suoi costi sociali ed ecologici: dall'impresa allo Stato, dal denaro alla natura, dal vincitore al perdente. Ma quando il mondo intero è composto di unità di utilizzo aziendale di lavoro astratto e quando queste hanno raggiunto un livello di produttività e di intensità di capitale così alto da non essere più sostenibile per la maggioranza, allora appare evidente che non si può più continuare in questa forma.
Solo per pochi vincitori, i costi di gestione sociali ed ecologici del sistema possono venire ancora sovvenzionati, ma sempre più faticosamente. Ogni guadagno sul mercato mondiale comporta tanta distruzione altrove, da far diventare insensata la riparazione, finanziata attraverso questo guadagno, dei fondamenti sociali e naturali del proprio territorio. Se mezza Amazzonia deve venir distrutta affinché il bosco tedesco possa almeno parzialmente essere salvato, e se centomila "posti di lavoro" della periferia debbono venir cancellati per conservare diecimila posti nell'Europa centrale, allora i conti non tornano più.
Lo sguardo ideologico sulla situazione mondiale e la sfacciata esortazione, rivolta agli eterni perdenti, a seguire l'esempio dei presunti vincitori, cominciano a sfidare la logica. Anche l'economia di mercato non è una forma sociale eterna. Ma siccome non si può tornare indietro a uno stato premoderno, e siccome questo non è neppure auspicabile, la modernità si deve autosuperare. La "postmodernità" (che ancora non ha un suo nome) non può però rimanere una figura puramente culturale o teorica, ma deve toccare inevitabilmente anche la forma economica di base. Ai meccanismi di valorizzazione aziendale, semplicemente scimmiottati all'Est in forma rozza e statalista, deve sostituirsi un'organizzazione mondiale dei bisogni materiali.
Questo sconvolgimento, sebbene vada più in profondità di tutte le rivoluzioni moderne, da tempo non è più una questione di "utopia". Se la società umana non sa più andare avanti col denaro, allora deve proseguire senza e contro il denaro. Le discussioni su emergenze e catastrofi sempre più numerose inducono inevitabilmente la richiesta di "misure pratiche". Si sono già lette nella stampa occidentale osservazioni critiche sul fatto che la macchina militare statunitense, pur in grado di spedire decine di migliaia di bare di plastica nel deserto saudita e poi nuovamente a casa per mancanza di bisogno, lamentava mancanza di "mezzi" per trasportare enormi quantità inutilizzate di vettovaglie militari nelle regioni africane della fame. Lo stesso problema sorge adesso di fronte a invendibili laghi di latte, montagne di burro e cumuli di carne bovina ammucchiati nelle celle frigorifere della CEE, in relazione ai morti di fame albanesi o rumeni a poche centinaia di chilometri di distanza.
Ma non bisogna farsi illusioni: nella situazione mondiale contemporanea, azioni redistributive gratuite di queste dimensioni travalicherebbero i limiti dei semplici aiuti umanitari d'emergenza, per segnare invece l'inizio della fine dell'economia monetaria astratta. Sarebbe dunque la fine della tanto celebrata modernità, che comincia a disattendere la propria legge formale. Certo, ci sono anche altre vie. Una foto d'agenzia mostra un bambino sovietico che in mezzo allo smog sta in un incrocio e pulisce i vetri delle macchine per guadagnarsi qualche copeca (un'immagine familiare in paesi come l'America Latina). La ripugnante didascalia dice: "Il furbo ragazzo moscovita ha capito fin in fondo lo spirito della perestroika. Il giovane imprenditore non conosce né la paura di fronte al libero mercato né ostacoli burocratici". Un mondo il cui spirito si esaurisce in tanta arida bassezza non può più avere consistenza. Se le "vittorie" dell'Occidente continuano in tale maniera, esso morirà delle proprie vittorie.